Beppe Grillo (Foto LaPresse)

Senza euro non saremmo liberi e sovrani, solo più poveri

Marco Fortis

Perché è senza fondamento pensare che liberi dall’Europa e dal giogo dei mercati e dello spread diventeremo più competitivi e tutti più ricchi

Tra i messaggi più irriverenti indirizzati in rete a Sergio Mattarella dopo il suo no a Paolo Savona come ministro dell’Economia, vi sono quelli di coloro che hanno deriso la preoccupazione del presidente della Repubblica di erigere un argine a tutela dei risparmi delle famiglie italiane minacciati dagli avventurismi legastellati “no euro”". Alcuni di tali commenti sprezzanti sono stati accompagnati anche dalla affermazione che “tanto ormai i risparmi degli italiani non esistono più, sono finiti da tempo”. Un vero delirio.

    

Ai cultori e propagatori di simili fake news facciamo subito notare che alla fine del quarto trimestre 2017 la ricchezza finanziaria lorda delle famiglie italiane è arrivata a toccare quota 4.295 miliardi di euro a valori correnti. Un livello che non si vedeva da oltre dieci anni dopo che durante la crisi del 2011 le consistenze dei risparmi degli italiani erano arrivate a sprofondare fino a 3.485 miliardi, con una perdita di ben 607 miliardi rispetto ai 4.092 miliardi del 2006 (-15 per cento). Ci sono voluti sei lunghi anni (2012-2017) di austerità, sacrifici e infine di ripresa economica per recuperare il patrimonio finanziario che era andato in fumo quando lo spread era impazzito ed eravamo finiti nella stessa squadra dei famigerati Pigs, capitanata dalla Grecia. Mentre ci sono voluti quattro anni (2014-2017) di paziente contrattazione con Bruxelles sulla flessibilità, con tagli di tasse e incentivi fiscali alla domanda interna e all’occupazione compatibili con i nostri conti pubblici, affinché le famiglie italiane, con i governi Renzi e Gentiloni, recuperassero circa 37 miliardi di potere d’acquisto.

  

L’impressione però è che gli italiani abbiano decisamente la memoria corta e scarse conoscenze di economia. Tant’è che sono arrivati a privilegiare con il voto del 4 marzo forze politiche che hanno promesso di rimandare in patria alcune centinaia di migliaia di immigrati, di tagliare le tasse all’impazzata e di abolire le riforme e i provvedimenti che ci hanno fatto diventare un paese un po’ più moderno e hanno costituito la base di una crescita economica che non si vedeva da oltre un decennio (in termini pro capite addirittura da circa venti anni). Dopo tante promesse di “cambiamento”, l’unica cosa che è cambiata è solo la distribuzione di poltrone, mentre la realtà è che gli immigrati resteranno qui, la flat tax e il reddito di cittadinanza sono finanziariamente impraticabili e l’abolizione delle riforme stroncherebbe non solo la ritrovata crescita ma metterebbe ulteriormente a repentaglio anche i conti pubblici.

  

Le forze legastellate vogliono ritornare alla sovranità monetaria e spacciano in modo tambureggiante alla popolazione italiana il messaggio che liberi dall’Europa e dal giogo dei mercati e dello spread diventeremo più competitivi e tutti più ricchi. Una tesi assolutamente senza fondamento. Infatti, non ci serve tornare alla lira per diventare più competitivi perché l’Italia non è mai stata tanto competitiva come negli ultimi anni con l’euro: ne sono la prova 90 miliardi di surplus commerciale manifatturiero con l’estero nel 2017, due terzi dei quali generati dagli imprenditori di Lombardia e nord est che finirebbero per primi in grossi guai uscendo dall’euro.

   

Nello stesso tempo occorre sempre ricordare che il debito pubblico italiano sotto forma di titoli di stato ammonta in totale a 1.960 miliardi di euro a febbraio 2018, suddivisi all’incirca metà ciascuno tra investitori residenti ed esteri e non 2/3 e 1/3 come sembrerebbe a prima vista, essendo ufficialmente attribuito ai non residenti uno stock di “soli” 690 miliardi. Infatti, accanto a questi 690 miliardi bisogna altresì considerare che dall’inizio del Quantitative easing voluto da Mario Draghi la Banca d’Italia ha accresciuto il proprio stock di titoli pubblici di circa 270 miliardi non in qualità di investitore “residente” ma come puro esecutore dell’eurosistema nell’ambito, appunto, del piano della Bce.

   

La Banca d’Italia dagli inizi degli anni 2000 fino al 2011 ha sempre detenuto un ammontare abbastanza costante di titoli pubblici italiani variante tra i 40 e i 70 miliardi. Poi questa cifra tutto sommato contenuta si è elevata in un primo tempo, nel 2011-13, a circa 100 miliardi durante la fase degli acquisti di sostegno della Bce ai paesi in difficoltà. Infine, durante il Qe l’ammontare dello stock è salito alla cifra monstre attuale di 371 miliardi. Dunque i 690 miliardi dei non residenti più i circa 300 miliardi acquistati negli ultimi anni da Banca d’Italia per conto della Bce arrivano oggi a sfiorare i 1.000 miliardi. Comunque la mettiamo, abbiamo bisogno che l’attuale stock di questi circa 1.000 miliardi sottoscritti in un modo o nell’altro dall’estero venga continuamente rifinanziato da stranieri che si fidino di noi e affinché ciò possa avvenire non dobbiamo assolutamente sembrare un paese sudamericano. Allo stesso modo se il valore dei nostri titoli di stato crolla, verrebbero drammaticamente impoveriti i 1.000 miliardi detenuti dai residenti, cioè banche, assicurazioni, fondi di investimento e famiglie italiane. In questo secondo caso, per essere chiari, si tratta comunque di soldi dei risparmiatori italiani investiti direttamente o indirettamente nel nostro debito. Il rischio Italia perciò non è una cosa astratta, una invenzione dei famigerati mercati. E fuori dall’euro gli italiani diventerebbero non liberi e sovrani – come pretendono i lega-stellati – ma semplicemente più poveri. Allo stesso modo le loro banche e assicurazioni, che detengono un grande quantitativo di titoli di stato, con una immediata svalutazione della “nuova lira” vedrebbero falcidiati i loro asset.

   

In conclusione, il nostro debito pubblico è oggi di nuovo sotto la minaccia dello spread non perché vi siano strane macchinazioni della Germania o dei grandi fondi stranieri ma perché nessun investitore, nemmeno italiano, continuerebbe a detenere nostri titoli pubblici se essi perdessero valore o nel timore che un giorno possano essere addirittura “congelati” in lire. Ed è ciò che alla fine succederebbe se fossero adottate politiche economiche dilettantesche anti euro. Di ciò vanno diligentemente edotti quegli italiani che alle ultime elezioni, senza riflettere su questo rischio, hanno votato Lega principalmente per cacciare gli immigrati ed andare in pensione un paio d'anni prima scassando i conti pubblici oppure hanno optato per il M5s per ricevere un reddito senza lavorare. C’è tempo da adesso fino alle prossime elezioni, qualunque destino avrà il governo pro tempore Cottarelli, per capire che votare no al referendum del 4 dicembre è stato un errore di portata storica; per rivedere in meglio il giudizio sui bistrattati governi Renzi e Gentiloni che avevano fatto ripartire l’economia; per capire che le banche venete, Banca Marche, Cariferrara e perfino la Etruria sono fallite per colpa di pessimi amministratori locali e non a causa della bufala del papà della ministra Boschi. E soprattutto per capire che è meglio rimanere in Europa con l’euro anziché finire tutti più poveri in lire. Il popolo deve essere non solo sovrano ma anche consapevole.

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