Alexis Tsipras (foto LaPresse)

Una svolta alla Tsipras per non diventare la zavorra dell'Europa

Claudio Cerasa

Nel 2011 terrorizzava il passato, ora la paura è il futuro. Come spegnere la minaccia che può incendiare l’Italia

Prima il terrore era guardando indietro, oggi la paura è guardando avanti. Se si vuole cercare una differenza sostanziale tra la crisi che ha colpito le Borse e i titoli di stato italiani nel 2011 e quella che sta colpendo Borse e titoli di stato italiani nel 2018 più che concentrarsi sui fondamentali dell’economia occorre forse concentrarsi un istante sui fondamentali della politica. Nel 2011, quando lo spread passò in sette mesi dai 173 punti base di gennaio ai 300 punti base di agosto, arrivando a quota 574 in novembre, la credibilità dell’Italia fu messa a rischio da due fattori. Da un lato, i conti del paese, con un deficit al 3,9 per cento a fronte di una crescita dello 0,5 per cento e un debito pubblico passato in tre anni da quota 101 per cento a quota 120 per cento. Dall’altro lato, accanto ai conti in sofferenza, vi era naturalmente anche una criticità politica legata alla incapacità di un governo di realizzare riforme strutturali per migliorare l’efficienza del paese. Gli investitori stranieri, in modo spietato, ebbero la forza, facendo leva su un paese debole, di trasformare quel governo, il Berlusconi/Bossi, in un tappo saltato il quale sarebbe stato possibile ridare forza e credibilità al paese. Nonostante la difficoltà, il dramma dei rendimenti tra i titoli di stato italiani e quelli tedeschi, la fuga dei capitali all’estero, il terrore degli investitori stranieri, la crisi del debito sovrano, il rischio default, nel 2011 tutti sapevano che ci sarebbe stata una soluzione per risolvere i problemi del paese: chiudere il capitolo passato e provare ad aprirne un altro futuro. Sette anni dopo il vero dramma politico ed economico che rischia di vivere l’Italia nei prossimi mesi, con i rendimenti tra i titoli di stato italiani e quelli tedeschi passati da quota 129 a quota 330 non in sette mesi come nel 2011 ma in quindici giorni (ieri fortunatamente lo spread ha chiuso a quota 250), è che mentre nel 2011 era il passato a fare paura oggi è il futuro a far tremare le gambe. Ieri ci si preoccupava guardando indietro, oggi ci si preoccupa guardando in avanti. Ieri si aveva la certezza che in caso di collasso ci sarebbe stato un tentativo trasversale anche delle forze politiche che avevano creato il disastro di assumersi la responsabilità di dire: faremo qualunque cosa sia nelle nostra facoltà per evitare di far crollare l’Italia. Oggi, invece, di fronte a una destabilizzazione provocata solo dalle promesse messe per iscritto in un programma di governo scellerato da due leader populisti si ha la certezza che nel futuro la credibilità dell’Italia possa tornare a essere tale solo a condizione che i vincitori del 4 marzo decidano di seguire una strada più simile a quella imboccata da Alexis Tsipras in Grecia che a quella imboccata da Carles Puigdemont in Catalogna. Il primo caso, la storia di Tsipras, del secondo Tsipras, quello che rinunciò al suo Paolo Savona, al suo Varoufakis, ci racconta la storia di un leader antisistema che una volta arrivato al governo ha capito, a poco a poco, che per provare a cambiare l’Europa, in virtù di un forte mandato popolare, non era necessario dover sfasciare necessariamente un paese. E per questo a un certo punto del suo percorso ha accettato il principio che fosse suo dovere trovare un modo non per separare popolo ed élite ma per provare a tenerli insieme. Nel secondo caso, invece, Puigdemont, in Catalogna, ha deciso di trasformare la divisione tra popolo ed élite non in un mezzo per conquistare il potere ma in un fine per esercitare il suo potere, arrivando così a fare quello che tutti sappiamo: mettere a rischio l’interesse di un popolo per non deludere i propri elettori.

 

Per molte ragioni, purtroppo, l’immagine che offre di sé l’Italia futura di Salvini e Di Maio è come un collage all’interno del quale si trovano insieme diversi frammenti della paura. In termini di passione per il sovranismo, si trova qualcosa del Venezuela di Maduro. In termini di disprezzo per l’Europa, si trova qualcosa della Francia di Le Pen. In termini di amore per l’euro, si trova qualcosa della Grecia di Varoufakis. In termini di pulsioni isolazioniste, si trova qualcosa della Catalogna di Puigdemont. In termini di rispetto per la cultura liberale, si trova qualcosa dell’Ungheria di Orbán. In termini di chiarezza nella collocazione internazionale, si trova qualcosa dei paesi soggetti all’egemonia russa. In termini di accortezza sui conti pubblici, si trova qualcosa dell’Argentina degli allegri patacones e dei terribili default. E stupirsi che questa immagine, questo patchwork, possa destare una qualche forma di diffidenza sul futuro del nostro paese è come stupirsi che due etti di carbonara al giorno possano creare una qualche difficoltà nel mantenimento della propria linea.

 

Nelle prossime ore, sul fronte del governo, tutto può ancora succedere, lo sappiamo, e ogni combinazione è ancora possibile. Potrebbe nascere per qualche mese un governo a guida Cottarelli, ieri la Lega ha detto di essere disposta a non votare contro, se davvero la Lega e il Movimento 5 stelle dovessero decidere di farlo partire. Potrebbe restare, ieri si è parlato anche di questo al Quirinale, Gentiloni ancora per qualche tempo se davvero dovesse prevalere l’idea di votare alla fine di luglio (speriamo!). Potrebbe nascere un governo a guida Giorgetti, o Conte con Savona in un ruolo diverso, se davvero la Lega fosse disposta a fare quello che oggi Salvini sembra non avere intenzione di fare, rinunciare a votare il prima possibile. Potrebbe succedere tutto questo, e anche molto altro, ma nulla di quanto descritto avrebbe la forza di convincere gli investitori internazionali che sul futuro dell’Italia si può ancora scommettere. Oggi, a differenza del 2011, non è il passato a far paura ma è il futuro a terrorizzare. E l’unica possibilità di non trasformare lo scontro tra popolo ed élite in una miccia capace di incendiare l’Italia è una e soltanto una: sperare che nella partita futura tra Salvini e Di Maio vi sia la consapevolezza che i populisti possono guidare un paese solo a condizione di seguire una strada più simile a quella di Tsipras che di Maduro o di Puigdemont. Nel 2011, la crisi finanziaria venne superata perché le forze politiche dimostrarono di essere disposte a tutto pur di non diventare la zavorra dell’Europa. Nel 2018, la possibile crisi finanziaria del nostro paese potrebbe continuare a bruciare capitali per la ragione opposta: perché le forze politiche più importanti d’Italia non danno alcun segno di essere disposte a tutto pur di non diventare la zavorra dell’Europa. I migliori amici degli speculatori, in fondo, non sono i politici con amici nella finanza ma sono tutti coloro che ogni giorno giocano con uno strumento che basta solo accennare per bruciare in pochi secondi una credibilità costruita in tanti anni: lo squallido linguaggio della irresponsabilità. Chissà che qualcuno, prima o poi, senza essere ostaggio degli algoritmi dello sfascio, non ci faccia un pensiero.

Di più su questi argomenti:
  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.