Giuseppe Conte (foto LaPresse)

E' un 2011 al contrario, serve un “whatever it takes” politico

Luciano Capone

Per spegnere il clima di sfiducia sul paese e scongiurare i rischi di un’uscita dall’euro, è necessario che il nascente governo Conte si impegni pubblicamente

La crisi dei debiti sovrani del 2011 parte dall’altra sponda dell’Atlantico, nasce dalla crisi finanziaria del 2008 e la conseguente Grande Recessione in America e arriva agli stati periferici dell’Eurozona. Con la prima ristrutturazione del debito greco nell’estate del 2011, i mercati realizzano che non esistono salvataggi automatici e che la tenuta della moneta unica non è scontata. Lo spread tra i rendimenti dei titoli di stato dell’Eurozona si divarica improvvisamente, quello tra i Bot italiani e i Bund tedeschi che era inferiore dai 200 punti base nella prima metà dell’anno cresce vertiginosamente e supera i 550 punti base a novembre, nella fase più acuta della crisi. Il governo Berlusconi è indebolito, è incapace ad affrontare una situazione drammatica attraverso risposte drastiche, ha una maggioranza risicata e spaccata al suo interno, con la Lega che si oppone a una riforma delle pensioni. Così, la crisi finanziaria colpisce un paese con molte fragilità e si trasforma in una crisi politica. Il paese si è affidato a un governo tecnico di grande coalizione, che ha attuato riforme strutturali e una stretta fiscale (in gran parte più tasse), ma l’incendio è stato definitivamente spento da riforme in sede europea e dal “whatever it takes” di Mario Draghi, con cui il presidente della Bce si è impegnato a fare “qualunque cosa necessaria” per salvare l’euro.

 

Nel 2018, in questa fiammata dello spread che improvvisamente ha superato i 300 punti base, è accaduto l’esatto contrario. E’ la crisi politica, poi diventata crisi istituzionale, che rischia di trasformarsi in crisi finanziaria risucchiando il paese fuori dall’unione monetaria. Nessuno choc esterno, nessuna crisi bancaria, nessun pericolo sulla solidità dell’unione monetaria, nessun attacco speculativo che si è abbattuto sull’Italia. Il paese cresce moderatamente, il debito pubblico (enorme) è sotto controllo e inizia a scendere e nel resto d’Europa, in particolare nei paesi periferici, le cose vanno ancora meglio. Non c’è alcun “complotto esterno” – non c’era neppure nel 2011 – non c’entrano le agenzie di rating, non c’entrano i governi stranieri, Bruxelles, Berlino o Parigi. Il “complotto” è tutto interno, i “congiurati” sono tutti italiani e hanno reso pubblici i loro piani mettendoli nero su bianco. I “mercati”, ovvero gli investitori e i risparmiatori, famiglie e pensionati, non hanno fatto altro che agire di conseguenza rispetto alle proposte di spesa in deficit per oltre 100 miliardi, alle richieste di cancellazione del debito, alle idee di stampare monete parallele e ai “Piani B” per uscire dall’euro, a cui si è aggiunta poi la richiesta di impeachment del presidente della Repubblica per “attentato alla Costituzione”. Dopo la crisi del 2011 abbiamo letto fiumi di commenti sull’euforia irrazionale dei mercati e sulla spregiudicatezza degli speculatori. In questo caso si è parlato poco dell’irresponsabilità dei partiti politici, Lega e M5s, e del comportamento dei leader politici, Salvini e Di Maio, che hanno agito come speculatori politici per i consensi di breve termine.

 

Adesso, dopo queste settimane di caos, per spegnere il clima di sfiducia sul paese e scongiurare i rischi di un’uscita dall’euro, è necessario che il nascente governo Conte si impegni pubblicamente. Come ha scritto ieri sul Foglio Francesco Lippi, “Serve un ‘whatever it takes’ che venga dall’interno del paese, non dalla Bce di Mario Draghi”. Un “whatever it takes” politico e non monetario. Che non è la semplice affermazione di “non voler uscire dall’euro”, ripetuta in questi giorni da M5s e Lega, ma l’impegno a fare tutto ciò che è necessario per restare nell’euro. E, di conseguenza, ad aggiornare il registro comunicativo e il programma di governo.

Di più su questi argomenti:
  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali