Paolo Gentiloni e Matteo Renzi (foto LaPresse)

Adesso Gentiloni vuole capire se Renzi sarà un alleato o un concorrente alle prossime elezioni

David Allegranti

Cosa si muove all'interno del Pd, dove molti si dicono disponibili a votare a luglio ma non tutti sperano in questo esito

Roma. “Ci vuole il mago Otelma. Noi siamo pronti a elezioni con Gentiloni”. La battuta di Matteo Ricci, responsabile enti locali del Pd, sottolinea il caos e la difficoltà a prevedere gli esiti della crisi. Ma rivela anche un’intenzione: il Pd è disponibile a votare subito, a luglio. Pubblicamente, è una posizione condivisa da molti, da Lorenzo Guerini ad Andrea Orlando. “Se si deve votare preferirei a luglio”, dice Emanuele Fiano. Questo significherebbe, naturalmente, il naufragio del governo Cottarelli e lo scioglimento anticipato delle Camere. Eppure non tutti, nel Pd, sperano in questo esito. Serve un po’ di capacità di interpretazione ma vanno lette con attenzione le parole di Vito Vattuone, senatore vicino a Luca Lotti e Antonello Giacomelli dopo la retromarcia di Luigi Di Maio sugli attacchi a Sergio Mattarella e l’annuncio di una disponibilità a collaborare per dare un governo al paese: “E’ sorprendente ascoltare finalmente da Di Maio parole di preoccupazione per la situazione del paese. Se questa non fosse l’ennesima giravolta tattica, se questo fosse stato lo spirito fin dall’inizio forse non ci troveremmo in questa situazione”, dice Vattuone.

  

Per i “lottiani” è un invito rivolto a Di Maio a non lasciare tutta l’iniziativa a Salvini. Bisogna “trovare il modo di mettere il governo Cottarelli in condizioni di prendere i provvedimenti urgenti che servono al paese. Il voto può venire in tempi brevi ma senza far correre rischi all’Italia. Non è una soluzione politica ma una scelta di responsabilità”, dicono i renzian-lottiani. Un governo Cottarelli, però, dice Andrea Romano, sarebbe rischioso, perché aiuterebbe solo il segretario della Lega: “L’insistenza di Salvini su Savona rivela i veri obiettivi della Lega: usare il governo Cottarelli soltanto come paravento per usare le Camere in questi due mesi come strumento della campagna elettorale, piazzando due-tre provvedimenti di natura propagandistica che saranno cancellati dal prossimo governo ma che saranno utilizzati da Salvini nel frattempo”.

  

In tutti questi ragionamenti sulla tempistica (i tempi, come noto, sono tutto in politica) manca però la prospettiva. A Matteo Renzi converrebbe avere più tempo? Se c’è da mettere in piedi un partito nuovo, sicuramente. Dalle parti di Paolo Gentiloni, invece, si osserva con interesse quello che si sta muovendo nel Pd. Il presidente del Consiglio uscente vuole verificare la lealtà di Renzi nei suoi confronti e segue con attenzione i suoi movimenti, a cominciare dal progetto di dar vita a un nuovo partito. Insomma, si ragiona nell’entourage gentiloniano, il segretario dimissionario del Pd – che è formalmente ancora capo politico del Pd, quindi le liste le firma lui finché non c’è un nuovo segretario di partito a tutti gli effetti – sarà un avversario o un alleato? Non è ancora chiaro. Per il momento, però, Gentiloni incassa la vicinanza del ministro Carlo Calenda, disponibile a costruire il “fronte repubblicano”, come spiegato ieri dal Foglio, con una lista unica e un nuovo simbolo. Con Gentiloni candidato. Un’altra ipotesi circolata ieri è che le liste siano tre: una del Pd, una capeggiata da Laura Boldrini e un’altra, europeista, da Calenda stesso.

    

Un progetto che trova d’accordo Giuseppe Sala, sindaco di Milano, che dice: “Mi convince Calenda come uno dei protagonisti di una sinistra che sta provando a lasciare da parte qualche egoismo e prova a dialogare. Quello che viene fuori dal pensiero di Calenda è che il Pd non é sufficiente alla sinistra. Se vogliamo allargare i nostri confini dobbiamo parlare a tanti confermando un credo di sinistra”. Oggi, aggiunge Sala, “la differenza tra il Pd e altre forze di sinistra sta nel fatto che gli altri parlano a tutti e noi abbiamo rischiato di parlare a una platea che si andava assottigliando”.

   

Sulla proposta di cambiare il simbolo, lanciata da Calenda, invece, non concorda Francesco Boccia, capogruppo del Pd in commissione speciale: “L’Italia non è un comune medio piccolo in cui ci si può presentare alle elezioni con un listone unico o con liste civiche. Io, personalmente, e penso di interpretare la stragrande maggioranza della nostra comunità politica, non ho alcuna intenzione di rinunciare al simbolo del Pd”. Contrario, da sinistra, Stefano Fassina: “La proposta di Fronte Repubblicano contribuisce a portare l’Italia nel baratro”, dice su HuffPost.

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  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.