Matteo Renzi (foto LaPresse)

Dove va il PdL di Renzi

David Allegranti

Rompere o no? Il Partito della Leopolda visto dai politologi. Parlano Calise e Vassallo

Roma. Ma il nuovo partito “europeista” al quale Matteo Renzi sta lavorando può riuscire laddove il Pd non ha funzionato? Risponde Mauro Calise, politologo, studioso dei partiti personali. “Il partito personale si fonda sull’incontro fra tre fattori: il leader, la comunicazione, l’organizzazione”, dice al Foglio. “Contrariamente a quello che si pensa, il terzo, l’organizzazione, è il più importante. La forza di Berlusconi è consistita nel mettere insieme la struttura organizzativa, poggiata su una gerarchia aziendale, con la capacità di fuoco comunicativa delle sue reti e le sue indubbie capacità di comunicatore. Senza questo mix, Forza Italia si sarebbe sfarinata nel giro di pochi mesi. Altro esempio virtuoso è quello di Grillo”.

 

“Grillo, che dalla sua ha un estro comunicativo eccezionale, è un grande attore, e ha anche una innovativa struttura operativa che è la rete, grazie alle intuizioni geniali di Casaleggio. La rete è il contrario di quel che appare: appare come una grande svolta democratica, ma nella sostanza è una macchina di controllo cybercratico che Bentham se la sarebbe sognata. Altro che Panopticon”. Dunque, Renzi. “Dove va? Intanto diamo a Matteo Salvini quello è che di Salvini. E’ riuscito nell’operazione di portarsi dietro una struttura territoriale amministrativa. Lottando per salire nelle gerarchie del partito. Il salto gliel’ha fatto fare la comunicazione. Le televisioni di Berlusconi ma anche il suo spin doctor, Luca Morisi, che gli ha fatto esplodere i follower e ha individuato il media giusto per la sua comunicazione. Il capolavoro è stato il rebranding della Lega in chiave nazionale attraverso la comunicazione, preservando una struttura organizzativa che è ancora quella tradizionale. La Lega è l’ultimo grande partito territoriale. Come se fosse un pezzo del vecchio Pci nelle zone rosse. Salvini ci ha messo il motore della leadership, e di Facebook. Ora, questo è esattamente quello che ha provato a fare Renzi con il Pd. Ma ha fallito malamente. Il Pd era indietro di 30 anni. Aveva il problema di una radicale rifondazione organizzativa. A un certo punto è arrivato Renzi, ha fatto un’Opa sul Pd”.

 

E, dice Calise con rammarico, “avrebbe dovuto mettere davvero mano al lanciafiamme. Non uno, ma tre, e riorganizzare il Pd. Era esattamente quello di cui c’era bisogno una volta impadronitosi della leadership e della comunicazione. E del governo, dove è stato bravo. Invece, sul partito non ha toccato palla. Le uniche cose che si è garantito sono state il controllo dell’assemblea e della direzione. Poi dei gruppi parlamentari, ma non è stata granché come innovazione. Anche Bersani si era blindato i parlamentari. Era il partito che doveva innovare, reinventare. Come avevano fatto Berlusconi e poi Grillo e infine Salvini. Tutti e tre grandi organizzatori. E molto sottovalutati nei discorsi degli opinionisti à la page. Renzi ha perso la sua occasione. Avrebbe dovuto rivoltare il Pd dal punto di vista organizzativo come un calzino. Era difficile, certo, ma andava fatto. O almeno tentato”. Renzi, invece, ha pensato che per aumentare i voti “bastasse un po’ di comunicazione smart in tv. Per giunta, andandoli a cercare nella direzione sbagliata. Ha pensato di andare a prendersi i voti a destra, tra gli orfani di Berlusconi che, invece, sono migrati tutti da Salvini. E nel frattempo gli sono sfuggiti di mano quelli a sinistra, come dimostra l’emorragia di voti verso i Cinque stelle. Senza contare la cecità verso il sud, la frontiera da cui poteva far ripartire l’Italia, e che e invece è finito dritto tra le braccia di Di Maio. Ma l’errore più grosso l’ha fatto con il Pd. Si è tenuto la stessa struttura, nata vecchia, inadeguata, arrugginita. Che gli è crollata sotto i piedi”.

 

Aggiunge il politologo Salvatore Vassallo: “Non ho elementi per assumere che l’ipotesi di un nuovo partito europeista renziano sia stata concretamente considerata. E’ resa plausibile dalla teoria sostenuta, su fronti opporti, sia da sofisticati studiosi sia da ruvidi propagandisti come Steve Bannon secondo cui la divisione tra destra e sinistra ha ceduto il passo a quella tra populisti e liberal-democratici, tra sovranisti ed europeisti. Personalmente non sono convinto che si tratti di una sindrome inevitabile. L’antieuropeismo è stato un elemento secondario e strumentale della retorica populista, che ha interessato un frammento limitato di elettori. Tanto che i Cinque stelle avrebbero potuto tranquillamente virare verso posizioni macroniane, se si fossero creati equilibri politici interni diversi. Ma la teoria potrebbe a questo punto autoavverarsi. In molti hanno consapevolmente o meno lavorato perché la saldatura e la radicalizzazione dei due vincitori avvenisse. Non è detto che questo renda più facile la rinascita del Pd o di uno dei suoi leader. Le componenti dell’elettorato popolare, di sinistra e di destra, sono state spaccate e oggi ricomposte nella coalizione Di Maio-Salvini. Fare l’operazione parallela con l’elettorato urbano, istruito e liberale pare più difficile. Tanto più da parte di un eventuale frammento di un Pd in disarmo”.

 

La domanda secondo Calise è dunque “con quale organizzazione Renzi pensa di andare avanti. Qual è il modello organizzativo? La Leopolda era una bella idea, è servita a fare brain storming. Il primo anno, il secondo anno, ma poi? Una volta chiusi i tavoli della Leopolda, come si organizza, come si controlla questo nuovo partito? Renzi ha buttato a mare il brand Pd perché non è stato capace di organizzarlo. Si è conquistato il brand, ma l’azienda era decotta. Ed è rimasta la stessa di Bersani: circoli, assemblee, direzioni. Accrocchi protonovecenteschi. Spodestata l’oligarchia, a fare girare la macchina sono rimasti i micronotabili, che sono saliti rapidamente sul carro del vincitore e ora, ancora più in fretta, ne stanno scendendo. La vera domanda della politica, per chi vuole comandare, è prima il come, poi il cosa. Da Cromwell a Lenin a McLuhan, fino a Grillo”.

Di più su questi argomenti:
  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.