Donald Trump (foto LaPresse)

La svolta protezionista di Trump rivela il suo vero scopo: frenare la tecnologia cinese

Maurizio Sgroi

Washington annuncia restrizioni sugli investimenti cinesi e tariffe su quasi 50 miliardi di dollari di importazioni cinesi come misura nei confronti di Pechino

Roma. L’Amministrazione Trump ha approvato le restrizioni sugli investimenti cinesi e tariffe su quasi 50 miliardi di dollari di importazioni cinesi come misura nei confronti di Pechino, accusata soprattutto di aver “rubato” tecnologia americana. Dopo mesi di minacce all’Europa e ai vicini americani, Canada e Messico, Donald Trump prende di mira il vero obiettivo della “guerra dei dazi” che ha fatto parlare di un ritorno al protezionismo. Il motivo è nella volontà americana di fermare i trasferimenti tecnologici e il “furto” della proprietà intellettuale di cui sono accusati i cinesi. La Casa Bianca ha detto che il presidente Trump ha incaricato il Rappresentante per il Commercio degli Stati Uniti di pubblicare un elenco delle tariffe proposte entro quindici giorni. Sono già stati identificati potenziali obiettivi: 1.300 linee di prodotti per un valore di circa 48 miliardi di dollari. Il mondo del business è d’accordo sul fatto che qualcosa debba essere fatto per contrastare l’aggressività della Cina nel campo della tecnologia, ma allo stesso tempo si teme che Pechino possa prendere di mira le esportazioni americane, avviando di fatto una guerra commerciale di sanzioni crescenti tra le due maggiori economie del mondo.

 

La mossa di Washington coincide con la conclusione di un’indagine durata sette mesi sulle tattiche che la Cina ha usato per sfidare la supremazia statunitense nella tecnologia: inviare hacker per rubare segreti commerciali e chiedere alle compagnie americane di consegnare i segreti aziendali in cambio dell’accesso al mercato cinese, come riporta l’Associated Press. Il problema è infatti contenere l’esuberanza di Pechino in settori strategici come le telecomunicazioni. Lo dimostra per esempio il recente stop della proposta di acquisizione di Qualcomm avanzata da Broadcom, di ritenere l’industria dei microprocessori un affare troppo serio per affidarsi al mercato. Il problema è che la Cina deve aver fatto la stessa considerazione, visto che ha annunciato nel 2015 di aver avviato un piano di investimenti da 150 miliardi in dieci anni per sviluppare la propria industria. Gli Stati Uniti, infatti, sono il più grande produttore di semiconduttori, con una quota che sfiora il 50 per cento del totale, e dipendono fortemente dalla domanda estera. Una pubblicazione diffusa dal Dipartimento del commercio internazionale americano l’anno scorso spiega che “oltre l’80 per cento della produzione americana di semiconduttori viene venduta all’estero” e che “per competere in questa industria le compagnie che producono chip e attrezzature devono esportare”. I principali mercati di riferimento sono la Cina, l’Ue, il Giappone, la Corea del sud e Singapore. La Cina si stima importi oltre il 90 per cento del suo fabbisogno, con le corporation Usa destinatarie di buona parte dei circa 200 miliardi che i cinesi spendono ogni anno. Si calcola che la Cina esprima circa il 45 per cento della domanda globale di semiconduttori e assorba da sola circa il 30 per cento della produzione americana. Se a ciò si aggiunge che la Cina è stata una delle destinazioni dove le corporation Usa hanno delocalizzato le produzioni, il quadro si completa. Gli Stati Uniti in gran parte esportano in Cina ciò che in Cina molto spesso producono.

 

Questo scenario economico, che si è consolidato negli anni della globalizzazione, rischia di finire nel tritacarne della politica ora che tornano di moda i dazi e il nazionalismo economico. I cinesi vogliono sviluppare la loro industria non solo investendo direttamente nello sviluppo delle aziende indigene, ma anche con una politica aggressiva di acquisizioni estere. Ed è qui che la politica fa capolino. Lo stop a Broadcom segue quello che l’Amministrazione Trump ha imposto a un fondo di private equity cinese che voleva acquisire l’americana Lattice Semiconductor. Un’azione simile era stata decisa anche dall’Amministrazione Obama, che nel dicembre 2016 aveva bloccato l’acquisizione della filiale americana della tedesca Aixtron, tentata dalla cinese Grand Chip Investment, sempre col pretesto della sicurezza nazionale. Diversa Amministrazione, stessa motivazione. D’altronde comprensibile: in un mondo che va verso il 5G e dove i microchip sono alla base di qualunque tipo device, compresi quelli militari, la fabbricazione dei “cervelli digitali” ha valore strategico per qualunque governo. Il dato economico, peraltro, non è trascurabile: la World Semiconductor Trade Statistics vede una crescita rilevante del settore che ormai si espande da decenni, pur se con qualche saliscendi. Quest’anno si prevede una crescita del del 7 per cento del mercato, che così supererà i 430 miliardi di valore globale. Questa torta suscita un comprensibile appetito e anche i cinesi, che sono ancora piccoli produttori – si stima intorno al 4 per cento – ne subiscono la seduzione. Pur senza inseguire il sogno irrealizzabile di una leadership nel mercato, infatti, i produttori cinesi possono risultare insidiosi per gli Stati Uniti. Se guardiamo all’Asia, dal Giappone fino a Taiwan, gli orientali arrivano a quotare (dato 2015) il 38 per cento della produzione globale. Il Giappone è amico degli Stati Uniti, ma la crescita della Cina, in tal senso, potrebbe far pendere definitivamente l’ago della bilancia verso oriente. E perdere la supremazia su un mercato strategico e politicamente sensibile non è un buon viatico, in un mondo multipolare. Se l’acciaio e l’alluminio sono sensibili per la sicurezza nazionale americana, tanto da rendere necessari i dazi, figuratevi i chip.

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