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Trump e la guerra dei chip

Eugenio Cau

Il vero scontro commerciale tra Cina e Stati Uniti è quello tech. Il caso dei microprocessori

Roma. Una prova di come la guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina sia difficile da evitare – indipendentemente dalle sbandate di Donald Trump su Twitter, che predica accomodamenti con Pechino nei giorni pari e sfracelli nei giorni dispari – si può ottenere leggendo i giornali americani degli scorsi giorni. Peter Navarro, direttore del Consiglio nazionale per il Commercio della Casa Bianca e capo della fazione anti cinese nell’Amministrazione, ha scritto un op-ed sul giornale conservatore Wall Street Journal in cui giustifica i dazi imposti dagli Stati Uniti alla Cina, quasi tutti riguardanti il campo dell’alta tecnologia, come una forma di difesa della sicurezza nazionale. Pechino, scrive Navarro citando un vecchio scritto di Warren Buffett, cerca di “colonizzare” l’America mediante le acquisizioni dei “gioielli della corona” della tecnologia statunitense.

  

Un paio di giorni dopo, sul liberal New York Times, il bravissimo reporter Paul Mozur ha delineato come avviene questa “colonizzazione” tramite la storia di Micron, azienda americana leader nella produzione di microchip, i “cervelli” di tutti i prodotti tecnologici odierni, dai computer agli smartphone. Mozur racconta che nel 2015 un’azienda cinese propose di comprare Micron per 23 miliardi di dollari. Micron si rifiutò, ma poco dopo altre aziende cinesi iniziarono a proporre agli americani delle vantaggiose partnership commerciali. Micron si rifiutò di nuovo. A quel punto, i cinesi, in associazione con un’azienda di Taiwan, rubarono i progetti e i documenti segreti di Micron, sfruttando degli impiegati infedeli. Quei progetti, scrive Mozur, che ha avuto accesso ai documenti giudiziari, contribuiranno al successo di una gigantesca fabbrica da 5,7 miliardi di dollari, grande quanto molti campi da calcio, in costruzione nella provincia del Fujian. Micron ha tentato di ribellarsi al furto, ha denunciato tutto, e in risposta le autorità cinesi hanno aperto un’inchiesta non contro i presunti ladri, ma contro Micron: non solo l’azienda americana non è riuscita a difendere la sua proprietà intellettuale, è stata punita da Pechino per aver tentato di farlo. Un caso simile riguarda Samsung. Oltre a smartphone ed elettrodomestici, Samsung produce anche microchip, i cui progetti sono stati rubati da un’azienda cinese – successivamente, le autorità hanno messo sotto indagine Samsung, non l’azienda locale.

  

Con un articolo piuttosto duro, insomma, il liberal e globalista New York Times corrobora le tesi del conservatorissimo Navarro, a indicare come ormai ci sia consenso trasversale negli Stati Uniti sul fatto che vadano prese misure dure contro la Cina, specie quando si tratta di tecnologia – il dissenso è su quali misure siano più appropriate. I microchip al centro di questa storia sono una delle tecnologie fondamentali intorno a cui si combatterà la guerra commerciale – le altre sono il 5G, l’intelligenza artificiale, la robotica – e che tanto Pechino quanto Washington considerano strategiche. Gli americani vogliono difendere la loro proprietà intellettuale e il proprio primato tecnologico; i cinesi, tramite il piano “Made in China 2025”, hanno intenzione di ottenere per sé questo primato, e sono disposti a tutto pur di farcela. Non è una dinamica nuova: alla fine del Diciannovesimo secolo era l’America la potenza in ascesa e rapace che rubava proprietà intellettuale agli europei.

  

Sui microchip, in particolare, di recente c’è stata un’accelerazione tale che si può facilmente parlare di “guerra dei chip”. Axios ha scritto che tutta l’industria teme di essere “passata sotto al bulldozer” da Pechino. Da un lato, le aziende che hanno provato a combattere, come Micron, sono finite schiacciate, dall’altro quelle che hanno ceduto alle “partnership” con aziende cinesi, consapevoli di non poter rinunciare al gigantesco mercato della Cina, sono rassegnate al fatto che la loro tecnologia passerà in qualche modo di mano. Nel frattempo, Pechino continua la campagna acquisti, e all’inizio del mese un gruppo di investitori cinesi ha annunciato l’acquisto (ancora da finalizzare) di Arm Holdings, azienda britannica di proprietà della giapponese Softbank. Secondo molti osservatori, Softbank ha dovuto vendere per non mettere a rischio la presenza di altre aziende del gruppo sul mercato cinese.

 

Le aziende americane chiedono un’“azione coerente” da parte della Casa Bianca, scrive Axios, ma la coerenza è l’ultima cosa che ci si può aspettare da Trump. L’ultima oscillazione dell’Amministrazione va nella direzione della guerra commercial-tech: secondo il Wall Street Journal la Casa Bianca sta per annunciare misure durissime per la protezione della tecnologia americana dalle mire cinesi, che comprendono controlli speciali per evitare l’esportazione di tecnologie strategiche e un divieto di investimento alle aziende che hanno una proprietà di almeno un quarto cinese.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.