Anthony Kennedy (S) con Donald Trump e Neil Gorsuch. Foto LaPresse

Alla corte di Trump

Con il ritiro di Kennedy la voce del presidente riecheggerà a lungo nella storia. L’apocalisse dei liberal

New York. Non esagera chi dice che il pensionamento di Anthony Kennedy è la notizia cruciale, il climax supremo di questa fase della vita del paese pur stracolma di momenti all’apparenza decisivi. Nel breve periodo, il ritiro del giudice della Corte suprema che presto compirà 82 anni dà a Donald Trump la possibilità di fare, nell’ambito delle nomine giudiziarie, nel giro di due anni quello che Clinton, Bush e Obama hanno fatto in otto anni di presidenza, cioè nominare due giudici della Corte suprema. Trump ha già scelto Neil Gorsuch per rimpiazzare il defunto Antonin Scalia, manovra scippata a suon di ostruzionismi alla precedente amministrazione e che ha pagato dividendi politici monumentali. “But Gorsuch!” è diventato un meme per schiere di evangelici non entusiasmati dalla politica e dalla condotta trumpiana che con grande senso della Realpolitik si consolano con la presenza di un giudice amico in fatto di aborto, libertà religiosa, immigrazione e altri temi sensibili. Ma il dato ancora più importante è quello anagrafico: Gorsuch ha cinquant’anni, lo aspettano, in assenza di inconvenienti, decadi di decisioni e sentenze sulle questioni più rilevanti della vita pubblica americana. Gli altri due giudici più anziani in forza alla corte presieduta da John Roberts sono entrambi liberal: Ruth Bader Ginsburg in ogni intervista e intervento pubblico dice che è in formissima e non pensa alla pensione, ma ha pur sempre 85 anni; Stephen Breyer ne compie 80 ad agosto. Nello scenario futuribile di una rielezione nel 2020, Trump avrebbe la possibilità di nominare una percentuale enorme della Corte suprema, ma già allo stato attuale è certo che la sua voce riecheggerà a lungo nella storia americana. Se poi si considera che il presidente ha avuto la possibilità di fare un numero senza precedenti di nomine togate a livello federale, diventa chiaro che la vera influenza di questo presidente va misurata per quello che ha fatto nell’ambito del potere giudiziario prima che in quello esecutivo.

  

Sono tutti elementi che descrivono l’enorme rilevanza dell’ambito giudiziario nella vita americana. Un giudice della Corte suprema non è un arbitro che dirime rare controversie interpretando la Costituzione, è il portavoce di una visione del mondo, un attore che plasma l’immaginario della nazione, una figura segnata dalla terzietà e allo stesso tempo direttamente dipendente dal clima politico. Si può fare una periodizzazione degli Stati Uniti basandosi sul segno impresso dalle varie corti invece che dalle Amministrazioni: la corte di Marshall (1801-1835) ha esteso il potere del governo federale, la Corte di Taney (1836-1864) ha dato argomenti che hanno infiammato la Guerra civile, le corti di White e Taft (1910-1930) hanno dato un incredibile impulso al laissez-faire economico e hanno limitato i poteri sindacali, la corte di Warren (1953-1969) ha affermato i diritti civili, sotto la corte di Burger (1969-1986) è stato legalizzato l’aborto con la Roe v. Wade e così via fino alla corte di Roberts, quella attuale, in cui il formalmente conservatore Kennedy è stato spesso lo “swing vote” decisivo. Non solo: Kennedy, nominato da Reagan dopo la cocente delusione di Robert Bork, giudice di scuola originalista bocciato dal Senato dopo una violentissima campagna denigratoria guidata da Joe Biden, è diventato una specie di improbabile angelo custode della sensibilità progressista. 

  

Kennedy ha aperto la strada già dagli anni Novanta alla protezione dei diritti degli omosessuali e ha concluso il percorso scrivendo, nel 2015, la sentenza di Obergefell v. Hodges. Molte coppie gay citano una frase presa dall’opinione di Kennedy durante la celebrazione del matrimonio: “Nessuna unione è più profonda del matrimonio, perché questa incarna i più alti ideali di amore, fedeltà, devozione, sacrificio e famiglia. Nel formare un’unione sponsale, due persone diventano una cosa più grande di ciò che erano prima”. Kennedy ha anche evitato di rovesciare la sentenza sull’aborto quando ha avuto l’occasione, negli anni Novanta, e dunque i liberal lo hanno amato tanto per le opere quanto per le omissioni. E hanno soprasseduto sul fatto che in altri ambiti, dalla concezione espansiva del primo emendamento che ha tolto i limiti ai finanziamenti alla politica al diritto di portare armi da fuoco fino ai diritti dei prigionieri, si sia comportato da perfetto conservatore (nell’ultimo anno non è stato affatto lo “swing vote”, e la corte di decisioni rilevanti ne ha prese parecchie). Lui lo ha sempre detto: non sono io che oscillo, sono i casi che oscillano attorno a me.

 

Una sterminata letteratura sostiene che l’attivismo dei giudici, atteggiamento di cui Kennedy è rappresentante eccellente, ha finito per tradire l’impianto costruito dai Padri fondatori. I nove silenziosi garanti di una Costituzione “morta, morta, morta” (Scalia) si sono trovati a prendere d’assedio il “ramo più debole del potere” (Alexander Hamilton) per tramutarlo nell’avamposto del conflitto culturale permanente. Dietro le colonne del palazzo della corte si prendono spesso decisioni più gravide di conseguenze rispetto a quelle prese nello Studio ovale: il presidente governa la dimensione immediata del potere, i giudici prendono decisioni che hanno un impatto nei decenni, nei secoli. Questo graduale spostamento degli equilibri fra i poteri spiega le alte grida dei liberal di fronte alla decisione di Kennedy. Non occorre citare il cubitale “we are fucked!” che il tabloid di sinistra Daily News ha messo in prima pagina. Basta l’editoriale del New York Times, secondo cui la corte ha perso una maggioranza che “difende in modo affidabile la dignità umana, l’uguaglianza universale e il diritto delle donne di controllare il proprio corpo” e il futuro riserva una “immoderata maggioranza di estrema destra per il resto delle nostre vite”. Al netto dell’enfasi apocalittica, non è peregrino osservare che il rimpiazzo di Kennedy è la decisione più importante, ramificata e di lungo periodo dell’era Trump.

  

E qui si arriva alla questione strettamente politica. Il successore di Kennedy deve essere confermato dal Senato, ma lo scorso anno la maggioranza repubblicana ha abolito la necessità di ottenere sessanta voti per la conferma, e dunque basta una maggioranza semplice. Il Gop ha 51 senatori (i democratici 49), ma John McCain è stato quasi sempre assente dall’inizio dell’anno per ragioni di salute, dunque tecnicamente basterà una defezione repubblicana per bocciare un candidato della Casa Bianca. Nel clima di febbrile mobilitazione che ha già preso Washington, gli occhi speranzosi della sinistra sono puntati su Lisa Murkowski e Susan Collins, senatrici pro choice che potrebbero opporsi alla scelta di Trump. Il presidente dovrebbe pescare da una lista di 25 giuristi già presentata prima della scelta di Gorsuch, e la maggior parte vanta credenziali conservatrici impeccabili su aborto e matrimoni gay. “I repubblicani hanno l’opportunità di cancellare i progressi di una generazione sui diritti delle donne e della comunità lgbt”, ha detto Nancy Pelosi, mentre i democratici al Congresso premono perché il voto sia posticipato a dopo le elezioni di midterm. Ma la leva nelle loro mani è assai svantaggiosa, e il senatore Mitch McConnell ha già detto che si arriverà al voto il più presto possibile. Trump non vuole certo perdere l’occasione unica di cementare il partito frammentato e galvanizzare la base per tenere a novembre.

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