Donald Trump (foto LaPresse)

Trump costruisce il suo momento “Nixon goes to China”

Il colpo di teatro del presidente americano alla ricerca di un'affermazione d’immagine a prescindere dai risultati

New York. Donald Trump ha cercato a lungo di propiziare il suo momento “Nixon goes to China”, il colpo di teatro che smuove lo status quo, e l’improvvisa apertura di Kim Jong-un a un incontro, inevitabilmente storico, offre al presidente americano l’opportunità che cercava. Che tutto si risolva e sfumi nel nulla sostanziale di una photo opportunity è una possibilità concreta, forse la più probabile dati i presupposti politici e le abilità negoziali dell’Amministrazione, ma nella logica del trumpismo stupire con tentativi arditi e inediti è il valore supremo, a prescindere dai risultati e dalle conseguenze di medio e lungo periodo. L’artista del deal si compiace sommamente della trattativa impossibile, ama l’effetto straniante dei rapporti trasversali e ha un’invincibile ossessione per i primati: “Gli piace essere il primo. Ama fare cose che nessun altro ha mai fatto prima”, ha detto a Politico un funzionario della Casa Bianca, esplicitando un aspetto del modus operandi presidenziale già ampiamente chiarito nei fatti.

  

La dichiarazione di Gerusalemme capitale dello stato di Israele, certificazione fattiva di una decisione già presa dal Congresso e messa in naftalina, è un altro precedente che va nella stessa direzione. Trump ha sempre un occhio rivolto alla sala dei trofei. Se l’incontro con il dittatore nordcoreano effettivamente avverrà, Trump passerà istantaneamente dalle copertine dei magazine ai libri di storia, e gli esiti politici del meeting si valuteranno poi. Il presidente è un cultore di quelli che i semiologi chiamano “pseudo-eventi”, circostanze orchestrate ad arte il cui valore si esaurisce nel fatto stesso di accadere, e il faccia a faccia con il leader del regime più paranoico del pianeta si annuncia come il principe di tutti gli pseudo-eventi trumpiani, dimostrazione della sua capacità di osare, di esplorare percorsi mai battuti dai politici bolliti.

 

A maggio dell’anno scorso un intervistatore di Bloomberg gli aveva chiesto se sarebbe stato disposto a incontrare Kim Jong-un, e lui non aveva fatto una piega: “Se si dimostrerà opportuno incontrarlo, lo farò assolutamente. Ne sarei onorato”. Non era riuscito a non aggiungere una postilla rivelatrice: “La maggior parte dei politici non lo direbbe mai”. Quasi incidentalmente, la breccia diplomatica con Pyongyang va in direzione della filosofia dell’America First dapprima cavalcata, poi abbandonata nei fatti e riesumata ora in una fase in cui la squadra dei protezionisti è ringalluzzita dalle vittorie sui dazi e l’insulto più usato alla Casa Bianca è “globalista”. Incontrare il dittatore senza un quadro strutturato di precondizioni è in linea con l’impostazione realista che Trump aveva delineato in campagna elettorale, salvo poi castigare pubblicamente il suo segretario di stato, Rex Tillerson, quando aveva parlato di un canale di comunicazione diretto con Pyongyang. Era uno degli screzi che avevano fatto esclamare a Tillerson il famoso “moron”, coglione, all’indirizzo del presidente, e da allora le cose non si sono mai aggiustate. Quando il consigliere per la Sicurezza nazionale della Corea del sud ha dato l’annuncio dell’incontro, Tillerson era in viaggio verso l’Africa. Da Gibuti ha detto che la notizia è arrivata “come una sorpresa per noi”, e la variabile fondamentale nell’equazione diplomatica è stata il cambio di postura del dittatore. A decidere di passare all’azione, ha detto Tillerson, è stato “Trump stesso”, e nessun altro.