Jeff Bezos (foto LaPresse)

Trump contro Bezos, idolo polemico del forgotten man

La Casa Bianca attacca Amazon per un tranello fiscale che rivela uno scontro fra visioni del mondo

New York. Il giorno dopo il retroscena di Axios secondo cui Donald Trump è “ossessionato” da Jeff Bezos e coltiva nei confronti del proprietario di Amazon ed editore del Washington Post forme di disprezzo e antagonismo del tutto particolari, il presidente non si è fatto sfuggire l’occasione per sferrare un secondo colpo: “Ho dichiarato le mie preoccupazioni su Amazon molto prima delle elezioni. Al contrario di altri, pagano poche o nessuna tassa agli stati e agli enti locali, usano il nostro sistema postale come il loro fattorino Boy (causando perdite enormi agli Stati Uniti) e fanno fallire migliaia di retailer!”.

 

 

L’articolo di Axios – che ha fatto crollare di quasi il 5 per cento il titolo di Amazon – metteva in luce l’idea di usare la leva delle leggi Antitrust per danneggiare il colosso di Seattle, e il tweet mattutino ha chiarito meglio, pur senza esplicitarlo, qual è il punto critico sollevato da una Casa Bianca in cui le anime protezioniste hanno il vento nelle vele: la politica fiscale di Amazon per quanto riguarda i venditori “terzi” che usano la piattaforma, ovvero circa la metà dei volumi mossi dall’azienda negli Stati Uniti. Amazon versa, in quarantacinque stati, le tasse sui prodotti che vende direttamente, ma non paga nulla quando a vendere è un terzo. Per l’amministrazione non si tratta dunque di “mettere una tassa speciale su Amazon”, come ipotizza un report di Deutsche Bank, ma di riscuotere ciò che la compagnia astutamente elude.

 

Il doppio colpo di Trump, portato prima attraverso leak e fonti anonime e poi rincarato in campo aperto, ha a che fare più con una vecchia partita irrisolta che con nuovi orizzonti regolatori e punitivi verso Amazon. Già a luglio dello scorso anno il segretario del Tesoro, Steve Mnuchin, aveva detto che l’Amministrazione avrebbe presto potuto prendere una posizione dura verso la politica fiscale che l’azienda adotta quando sono coinvolti “third parties”, e in un’udienza al Congresso aveva detto: “Mi incoraggia il fatto che Amazon paghi le tasse sulle proprie vendite dirette, ma non lo fa quando altri vendono sulla loro piattaforma. Non credo di capire quale coerenza ci sia in questo, ma rispetto il diritto degli stati di riscuotere somme enormi di denaro che non vengono corrisposte”. E gli stati si sono mossi in questa direzione.

 

Lo stato di Washington è stato il primo a imporre ai “marketplace” come Amazon di raccogliere le imposte per conto dei venditori che operano sulla loro piattaforma, e il 1° aprile una legge simile entrerà in vigore anche in Pennsylvania. La norma specifica che le tasse statali devono essere versate anche se l’intermediario, cioè Amazon, non ha sedi, magazzini o altre attività reali all’interno dello stato. La disputa intorno ai “third parties” è uno dei macigni sulla via che congiunge Trump e Bezos – e la Corte suprema potrebbe infine dirimere la controversia – ma si tratta dell’addentellato pratico di una questione che si nutre di simboli, idiosincrasie, egocentrismi esasperati. Agli occhi di Trump e dell’elettorato dei frustrati della globalizzazione, Amazon è un impero ancora più malvagio dei suoi cugini della Silicon Valley perché traffica merci reali nello spazio commerciale reale, il campo di battaglia su cui si scontrano due visioni del mondo, quella nazionalista e quella globalista. Nell’immaginario trumpiano, Bezos è un distruttore di confini che rade al suolo o fagocita tutti i piccoli operatori commerciali che non si genuflettono al suo volere, un idolo polemico naturale del “forgotten man” americano. Con l’aggravante di aver comprato il Washington Post, quotidiano con un passato glorioso e battagliero che lui ha rivitalizzato in funzione antitrumpiana.

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