Guerra agli oligarchi

Stefano Cingolani

Trump contro Bezos e la Silicon Valley. Sotto tiro di Putin i plutocrati russi. Anche la Cina picchia duro

Una guerra tra oligarchi, un conflitto tra plutocrati americani, russi, cinesi. Mettendo insieme storie parallele che apparentemente insieme non possono stare, si scopre una convergenza inattesa, un filo conduttore che aiuta a capire meglio la strategia americana, con nome, cognome, volto e personalità precise. Donald Trump, il reuccio del mattone, dei grattacieli, dei casinò; Jeff Bezos, lo gnomo del commercio online, che gioca con droni e robot e vuol diventare un tycoon dell’informazione; Oleg Deripaska, proprietario del secondo gruppo mondiale di alluminio e del primo costruttore automobilistico russo, uno dei più ricchi boiardi a puntello del potere; Jack Ma, icona dello spirito imprenditoriale che fiorisce sotto il comunismo di mercato e sfida l’ortodossia del capitalismo a stelle e strisce perché anche Alibaba al pari di Amazon è un attacco al tradizionale sistema distributivo e alle sue potenti lobby che mobilitano milioni di voti; in più, è un’offensiva straniera che viene dalla potenza emergente del nuovo millennio.

 

Sono solo alcuni nomi di questo gioco a tre per il predominio internazionale, alla ricerca di quello che politologi e diplomatici chiamano il nuovo ordine mondiale, un gioco pericoloso pronto a passare il confine poroso tra affari e politica, tra dazi e bombe. Ma non saltiamo subito alle conclusioni per non confondere il lettore e cominciamo dal fronte interno agli Stati Uniti.

 

Perché Trump ce l’ha tanto con Bezos? Senza dubbio è uno scontro tra ego gonfi come palloni. ”Uno è l’uomo più ricco del mondo, l’altro il più potente – ha scritto il quotidiano britannico The Guardian –. E sono impegnati in un conflitto che sta costando miliardi di dollari a chi investe in Borsa”. Trump accusa Bezos di imbrogliare il fisco americano, quindi i contribuenti, di provocare il collasso del sistema postale con il suo sistema di distribuzione alternativo e la rovina non solo dei piccoli negozi, ma delle maggiori catene di grandi magazzini a cominciare da Wall Mart che arranca affannosamente nel tentativo di passare alle vendite su internet. Bezos non risponde, non direttamente, ma per lui parla il Washington Post, anche se l’amministratore delegato Frederick Ryan Jr giura che il patron di Amazon non è mai intervenuto, non ha mai proposto una storia né ha mai criticato un articolo. Il quotidiano della capitale, acquistato nel 2013 dagli eredi di Katherine Graham, è stato riportato da Bezos ad antichi splendori, diventando l’alfiere di tutti coloro che ce l’hanno con Trump. Se riuscisse a provocare l’impeachment, suo malcelato obiettivo, farebbe impallidire il ricordo di Carl Bernstein, Bob Woodward e del Watergate che costò la Casa Bianca a Richard Nixon. Sotto la testata campeggia oggi uno slogan da brivido: “La democrazia muore nelle tenebre”, un motto pronunciato da Bezos pochi mesi prima delle elezioni presidenziali del novembre 2016. E non ci vuole molto a capire chi è il signore delle tenebre.

 

Proprio il Washington Post ha dedicato un ampio reportage a questo duello rusticano ricordando maliziosamente che la classifica di Forbes ha collocato Bezos in cima ai ricconi d’America con un patrimonio di 112 miliardi di dollari, mentre Trump è solo numero 766 con 3,1 miliardi. Non solo, ogni anno il presidente protesta perché ritiene che la rivista sottovaluti il suo patrimonio. Invidia, vanità, umano troppo umano. E non solo. I due magnati sono divisi da due mondi, due modelli economici, due sistemi di vita e, inutile minimizzare, dalla politica che passa per il Washington Post, contro il quale The Donald ha mobilitato i tycoon che sono al suo fianco: Rupert Murdoch con Fox Tv e il gruppo Sinclair posseduto dagli eredi del fondatore Julian Sinclair Smith, con oltre 200 tv locali, quelle che influenzano l’America profonda come la chiamano i liberal sdraiati lungo le coste dell’Atlantico e del Pacifico.

 

The Donald, d’altronde, non ce l’ha solo con Bezos, ha messo alla gogna l’intera Silicon Valley, o meglio i potenti del XXI secolo a cominciare da Mark Zuckerberg: per lo spazio di un radioso mattino il giovanotto aveva sperato addirittura di diventare lo sfidante democratico di Trump, finché ha scoperto che la sua creatura, Facebook, si era trasformata in orrendo mostro incontrollabile. Poi c’è quel sognatore di Elon Musk che vuole andare su Marte prima della Nasa, anzi persino in competizione; invece rischia di essere travolto dalle difficoltà economiche della Tesla, la migliore delle sue invenzioni, un’auto bella, ricca e dannata. E dalla valle del silicio, dai signori dell’èra digitale si leva un grido di dolore, ancor più dopo aver percepito, con l’interrogatorio di Zuckerberg al Congresso, che i rappresentanti del popolo non hanno idea di come funzioni l’universo digitale. Per un motivo o per l’altro, Trump, il loro nemico numero uno, prima li ha utilizzati (vedi Cambridge Analytica, gli hacker russi e via via smanettando), poi li ha imbrogliati e adesso li tiene tutti per le palle, come dicono gli americani chiedendo scusa per aver usato il francese.

 

Ma c’è anche dell’altro? C’è una logica dietro la follia? Questo presidente che ha sempre l’aria imbronciata di un bullo al caviale, fa il pazzo per svelare la verità, sulle orme di Amleto? Prendiamo le sanzioni. Gli economisti demonizzano o minimizzano, ma la realtà è che si tratta di una strategia volta a colpire all’interno il sistema di potere a lui ostile saldando in un’alleanza stretta quello che lo sostiene, e a minare all’esterno i pilastri economici delle due potenze che oggi si presentano sulla scena mondiale come le grandi rivali degli Stati Uniti, cioè la Cina e la Russia.

 

Gli Usa nel secondo dopoguerra hanno issato la bandiera del laissez-faire, memori della catastrofe provocata negli anni Trenta quando pensarono di rispondere alla Grande depressione con il protezionismo; però molto spesso hanno predicato bene e razzolato male. Ronald Reagan, il campionissimo della rivoluzione liberista, ha praticato dazi e tariffe provocando non pochi guai; Bush padre volle difendere le Big Three dell’industria automobilistica insidiate dai giapponesi; e per venire a giorni a noi più vicini è stato Barack Obama ad aver già innalzato le tariffe sull’alluminio. Nessuna di queste misure è servita allo scopo. L’auto made in Usa è declinata sotto l’offensiva nipponica prima e tedesca poi. Quanto all’industria pesante, il conto è presto fatto: l’aumento dei prezzi dell’acciaio e dell’alluminio (rispettivamente 25 e 10 per cento) crea circa 33 mila posti di lavoro nella metallurgia, ma ne distrugge 179 mila nelle industrie utilizzatrici. Un bel boomerang, secondo i calcoli della società di consulenza Trade Partnership citata dall’Economist.

 

La mossa di Trump è molto insidiosa. Mentre i suoi predecessori concepivano le misure protezionistiche come temporanee e in ogni caso negoziabili negli organismi internazionali (il Gatt prima e ora il Wto), The Donald non crede né al libero scambio né alle trattative multilaterali, e per di più ha evocato la sicurezza nazionale proprio per sfuggire a questa eventualità. Del resto, anche negli accordi dell’Organizzazione mondiale per il commercio esiste una clausola che consente di sfuggire alle regole comuni proprio in caso di minaccia alla sicurezza. Insomma, c’è da far arricchire legioni di avvocati e consulenti.

 

Il paradosso è che la maggior parte dei prodotti siderurgici importati proviene dall’Europa, dal Canada, dal Messico, dalla Corea del Sud, tutti alleati strategici degli Usa. Un altro boomerang. E non è nemmeno vero che, come ha detto Trump, dall’estero arriva materiale cattivo; al contrario, l’Europa fornisce proprio gli acciai speciali, quelli utilizzati nelle industrie di punta, comprese quelle della Difesa, tanto che il Vecchio continente è il numero uno non per quantità esportata, ma per valore aggiunto.

 

Il presidente, scrivono gli osservatori più vicini alle dinamiche politiche interne, guarda al 6 novembre, primo grande test della sua amministrazione: le elezioni di medio termine rinnoveranno parte del Senato e della Camera dei rappresentanti e finora i voti locali non gli sono stati favorevoli. L’appuntamento è delicato e la Casa Bianca, subissata di critiche, in pieno caos organizzativo (proprio contro i dazi si è appena dimesso il consigliere economico Gary Cohn), sotto schiaffo per le relazioni pericolose con la Russia di Putin durante le elezioni, finora ha vantato una congiuntura economica eccellente (crescita del 3 per cento, disoccupazione al 4 per cento, aumento dei salari operai, una Borsa ancora bella gonfia dopo nove anni di corsa del toro), ma si intravedono i primi segnali di rallentamento.

 

La rappresaglia minacciata dagli europei andrebbe a colpire interessi forti legati ad alcuni pezzi grossi del Congresso: il Bourbon del Kentucky, lo stato che elegge Mitch McConnell, il leader repubblicano del Senato; le Harley-Davidson fabbricate in Wisconsin, la patria di Paul Ryan, speaker (cioè presidente) della Camera, che è anche uno dei maggiori produttori di mirtilli. Insomma, il boomerang si ritorce in questo caso contro gli europei, con il risultato di rafforzare Trump il quale usa dazi e tariffe come missili economici per minare il sistema di potere della Russia.

 

Un’economia dominata dall’esportazione di materie prime, per la stragrande maggioranza gas e petrolio, è estremamente sensibile non solo ai capricci del mercato (quando il prezzo di idrocarburi è sceso l’intero prodotto lordo annuo è finito sotto zero), ma alle tensioni geopolitiche. I dazi sull’alluminio hanno messo a terra il colosso Rusal costruito da Oleg Deripaska rastrellando fin dagli anni Novanta i frammenti lasciati dall’implosione dei mammut sovietici. Pur non essendo un fantoccio di Vladimir Putin (anzi si era imparentato con Boris Eltsin) è uno degli oligarchi più ricchi e potenti al centro di una ragnatela economica particolarmente sensibile. I dazi americani lo hanno messo in ginocchio, Rusal è sull’orlo del crac e il Cremlino ha deciso di salvarla con soldi pubblici anche per evitare una reazione a catena: vacilla già la Sberbank, vera cassaforte dei risparmiatori russi, il cui capitale è in mano alla Banca centrale. L’amministratore delegato Herman Gref, ex ministro del Commercio, uno della cricca putiniana di San Pietroburgo, ha investito una gran quantità di quattrini nella Silicon Valley e adesso è vittima anche lui della nemesi trumpiana.

 

L’impatto delle sanzioni, dunque, ha un chiaro valore geopolitico. Il mondo sta assumendo un assetto tripolare e gli Stati Uniti si preparano. John Bolton, il nuovo consigliere strategico, ha chiaro in testa questo schema, basta seguire il Gatestone Institute da lui presieduto fino alla recente nomina alla Casa Bianca. The Donald non segue una dottrina (America First è piuttosto un principio general-generico), reagisce a modo suo, d’istinto e per odi personali. La partita è rischiosa, può portare a una escalation militare da parte della Russia (la Siria sta diventando il palcoscenico del braccio di ferro a suon di missili) condita da un ricatto energetico verso l’Europa che colpisce anche lo shale gas americano e i petrolieri texani puntelli del sistema trumpiano. Di nuovo, oligarchi contro tycoon.

 

E la Cina? A lungo termine la sfida è proprio con l’Impero di mezzo, scrive Martin Wolf sul Financial Times, e questa rivalità è destinata a plasmare l’intero secolo XXI, perché il conflitto è anche ideologico, come quello tra l’Unione sovietica e l’occidente egemonizzato dagli Stati Uniti. Il presidente americano ha innalzato le barriere del protezionismo, ma finora Pechino riceve dai dazi su acciaio e alluminio un danno minore rispetto a Mosca. E non è un caso. La Cina è determinante per disinnescare la mina nord coreana; Kim (Jong-un, il rocket man) non muove foglia che Xi (Jinping, il nuovo Mao), non voglia. Sorprendendo tutti, Trump ha deciso di incontrare a maggio l’autocrate nordcoreano. Può darsi che il negoziato non cominci neppure, ma se parte, allora tutti avranno bisogno di Pechino.

 

La leva diplomatica non è la sola perché i dragoni rossi hanno nelle loro tasche una bella fetta di debito americano. Su un totale di 20 mila miliardi di dollari, poco più del prodotto lordo di un anno, la parte detenuta da investitori esteri ammonta a 6.281 miliardi, quasi tutti in mano a stati sovrani. I due principali creditori sono Giappone (1.108 miliardi) e Cina (1.049) ed è loro interesse sostenere il valore del dollaro rispetto a quello delle valute nazionali per favorire la competitività del loro export. E’ una formidabile arma di ricatto, ma è anche la fonte del circolo vizioso che Trump vorrebbe spezzare con il protezionismo sui prodotti industriali non essendo in grado di nazionalizzare il debito pubblico. Da gennaio i cinesi hanno smesso di comprare buoni del tesoro a stelle e strisce, non si sa se sia frutto di una direttiva politica o un aggiustamento di portafoglio mentre sono scesi anche gli investimenti negli Stati Uniti.

 

La spada del debito pende sulla testa dello Zio Sam. Dovrebbe far riflettere i sovranisti. Non solo. L’industria americana è strettamente intrecciata a quella cinese, la catena del valore come la chiamano gli economisti attraversa l’Oceano Pacifico; sono legami difficili da sciogliere, ma se si spezzano crolla la filiera industriale che ha guidato negli ultimi trent’anni l’economia a stelle strisce e collassa la Silicon Valley. Sempre lì si torna; del resto, è lì oggi il cuore pulsante che un tempo era a Detroit e prima ancora nella cintura rugginosa, quella dell’industria pesante che s’estende dall’Atlantico ai Grandi laghi, o nel Texas del petrolio. Tutto si tiene? Economia e politica, guerra e pace, tutto è strettamente collegato, lo è sempre stato, la globalizzazione semmai ha reso i vincoli più stretti, ma anche più vulnerabili, perché nessuno è davvero padrone in casa propria, nemmeno Trump.

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