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Salari, tasse, pensioni. Le promesse dei partiti sul lavoro

Pietro Reichlin*

I pregi e i difetti dei programmi elettorali delle forze politiche sul lavoro. E una proposta trasversale per mettere fine al balletto sulle risorse

LUISS Open ha chiesto a Pietro Reichlin, professore di Economia alla LUISS Guido Carli, di commentare i principali pregi e i più vistosi difetti dei programmi elettorali dei partiti politici italiani in materia di lavoro. Ecco cosa ne è venuto fuori (con una proposta finale “trasversale” per tutti i partiti).

 

Movimento 5 Stelle 

Libera rappresentanza sindacale. […] Garantire a tutti i lavoratori il diritto di poter scegliere le proprie rappresentanze sindacali e di essere eletti, con una competizione aperta tra tutte le sigle, indipendentemente dall’aver firmato gli accordi con le controparti”. Verificare il grado di rappresentatività dei sindacati è un obiettivo condivisibile; oggi però il problema è innanzitutto quello della scarsa esigibilità dei contratti di lavoro. I grillini, nel loro programma, auspicano la “cogestione alla tedesca” nelle aziende, ma in base alla cosiddetta “Mitbestimmung” lo sciopero, per esempio, per essere indetto deve essere stato approvato da una maggioranza qualificata e piuttosto elevata dei lavoratori. Insomma, sì a maggiori regole e trasparenza nella contrattazione, ma attenzione a trasformare la contrattazione in un Parlamento ingovernabile di mille e più voci, a volte quasi insignificanti.

 

Riduzione dell’orario di lavoro. […] Il Movimento 5 Stelle favorirà processi di riorganizzazione produttiva, riducendo l’orario di lavoro al di sotto delle 40 ore settimanali”. È una proposta a mio giudizio totalmente negativa. E’ stato tra l’altro dimostrato che gli effetti della riduzione imperativa degli orari di lavoro, in un paese come la Francia, ha avuto effetti nulli o addirittura negativi sui livelli occupazionali. Se poi l’operazione fosse da attuale “a salario costante”, allora si aggraverebbe il problema della scarsa competitività delle nostre imprese.

 

Investimenti per reddito di cittadinanza e riforma dei centri per l’Impiego”. Innanzitutto il reddito di cittadinanza proposto non è propriamente un “reddito di cittadinanza”, visto che non è destinato a tutti i cittadini ma soltanto a coloro che non lavorano e che rispettano certe condizioni di reddito. Dopodiché, al di là delle questioni nominali, si pone un problema di coperture: è compatibile una spesa significativa come quella per il reddito di cittadinanza, tra l’altro accoppiata alle coperture del taglio del cuneo fiscale che lo stesso Movimento propone? Lodabile invece l’accenno all’importanza dei centri per l’Impiego, ma anche qui occorre farsi una domanda: è lo stesso Movimento 5 Stelle che, bocciando la riforma costituzionale del dicembre 2016, ha contrastato il potenziamento dell’Agenzia nazionale per le Politiche attive, lasciando che i suoi poteri fossero dispersi a livello regionale?

 

Partito Democratico

Salario minimo garantito. […] Sarà fissato da una commissione indipendente di cui faranno parte anche sindacati e organizzazioni datoriali. Le imprese saranno vincolate a usarlo solo in assenza di un contratto collettivo”. In linea di principio è una misura giusta, a patto che non sia a detrimento di un peso sempre maggiore della contrattazione aziendale che è la più indicata per legare la retribuzione dei lavoratori all’andamento della produttività. Certo, finché c’è il contratto collettivo di lavoro nazionale, a questo non si potrà derogare, stanti le regole attuali. Quel che è certo è che il livello del salario minimo dovrà tenere conto delle differenze regionali del costo della vita e del lavoro.

 

Ridurre il costo del lavoro per il tempo indeterminato a tutele crescenti di un punto all’anno per 4 anni, in modo che alla fine della prossima legislatura il costo dei contributi sia al 29% rispetto al 33% di oggi”. Quanto accaduto negli ultimi anni dimostra che, una volta venuti meno gli incentivi fiscali più corposi, il contratto a tempo determinato torna a essere quello prediletto dagli imprenditori perché essenzialmente meno costoso, oltre che meno vincolante. Non c’è dunque altra soluzione che quella di insistere su una progressiva e stabile defiscalizzazione del contratto a tempo indeterminato.

 

Completare la misura degli 80 euro, che abbiamo introdotto per i lavoratori dipendenti,estendendola alle partite Iva nella stessa fascia di reddito”. Gli 80 euro al mese per i lavoratori con reddito inferiore ai 26.000 euro lordi l’anno è stata una misura di cui ho condiviso lo spirito: quello di premiare i lavoratori dipendenti, invece che altre categorie solitamente più “fortunate” come i pensionati, incentivando l’offerta di lavoro oltre che stimolando indirettamente i consumi. Sono più scettico però sull’estensione di questa misura alle Partite Iva, per due ordini di ragioni. Primo, perché sulle Partite Iva occorre fare più attenzione a proposito di costi ed evasione delle stesse. Inoltre, così come gli 80 euro avrebbero dovuti essere “stabilizzati” con una rimodulazione definitiva delle aliquote Irpef che farebbe guadagnare in credibilità alla misura, sarebbe oggi il momento per il Pd di pensare più “in grande”, con l’obiettivo appunto di rendere più equa la struttura dell’imposizione fiscale. Insomma uscire dal corto respiro dei bonus, per quanto – ripeto – positivi nel loro intento, e assumere la visione della revisione delle aliquote Irpef.

 

Centrodestra 

La Lega Nord propone l’abolizione della riforma Fornero dell’articolo 18 e la reintroduzione dei voucher, per Forza Italia invece la riforma dell’articolo 18 non si tocca. Ovviamente articolo 18 e voucher riguardano fattispecie diversissime fra loro. Credo comunque che sul punto, nel centrodestra, stiamo assistendo perlopiù a un tentativo di differenziarsi agli occhi degli elettori, a fronte di scarsa volontà di tornare effettivamente indietro sullo Statuto dei lavoratori. Per fortuna.

 

Le aziende che assumono a tempo indeterminato un giovane avranno la detassazione e decontribuzione completa per sei anni”. In questo caso valgono le stesse considerazioni svolte in precedenza per il programma del Partito democratico: non c’è altra soluzione che quella di insistere su una progressiva e stabile defiscalizzazione del contratto a tempo indeterminato se vogliamo renderlo più conveniente del contratto a tempo determinato. Dal punto di vista teorico, una decontribuzione totale di sei anni sarebbe ancora più radicale ed efficace di quella proposta dal Pd, ma ovviamente ha bisogno – per essere stabile e credibile nel tempo – di coperture finanziarie molto più impegnative.

 

Riforma del sistema tributario con l’introduzione di un’unica aliquota fiscale (Flat tax) per famiglie e imprese con previsione di no tax area e deduzioni a esenzione totale dei redditi bassi e a garanzia della progressività dell’imposta”. È difficile, al limite impossibile oltre che non auspicabile, introdurre una flat tax di questo tipo. Un obiettivo simile diverrebbe invece virtuoso se nascondesse la volontà di rendere più graduale l’attuale profilo delle aliquote marginali effettive sul reddito. Oggi infatti, sebbene il sistema impositivo si componga di cinque aliquote nominali – 23, 27, 38, 41 e 43 per cento –, l’effetto delle detrazioni fa sì che le aliquote marginali effettive siano solamente due. Appena superata la no tax-area di 8mila euro, siamo in presenza di un’aliquota marginale effettiva al 30% fino a 28mila euro, che poi si assesta tra il 41 e il 43% per redditi superiori. Tale sistema fiscale è da rivedere, aumentandone così efficienza, progressività ed equità.

 

Una proposta trasversale per mettere fine al balletto sulle risorse

Tutti gli attori politici, quando elencano le possibili coperture finanziarie per le loro misure preferite – incluse quelle sul lavoro –, citano dei non meglio precisati interventi sulle misure di esenzione, esclusione, riduzione dell’imponibile o dell’imposta, insomma su quelle che gli economisti chiamano in inglese “tax expenditures”. Ma di quanti soldi parliamo davvero? Secondo i calcoli di Mauro Marè e della Commissione per le spese fiscali istituita al Ministero dell’Economia e delle Finanze, nel 2018 sono state conteggiate 466 spese fiscali, cui corrispondono minori entrate per 54,2 miliardi quest’anno e 54,9 miliardi l’anno prossimo. Un calcolo che già esclude le oltre 170 tax expenditures che riguardano la fiscalità locale, le detrazioni per il lavoro dipendente (valgono 39 miliardi di euro) e quelle per carichi familiari (13 miliardi). La spesa effettivamente aggredibile, insomma, si aggira sui 10 miliardi di euro. Ecco, si parta dall’individuazione di questi 10 miliardi, e dallo sfoltimento di anacronistiche eccezioni sull’IVA, per creare un “tesoretto” comune che poi si possa effettivamente spendere sulla base delle priorità politiche che saranno maggioritarie. Una proposta trasversale di reperimento delle risorse, per uscire dal balletto dei numeri e per concentrarsi – magari poi legittimamente dividendosi – sulle azioni che è possibile intraprendere.

 

*Professore di Economia alla LUISS e Research Fellow al CEPR di Londra

 

Questo articolo è pubblicato anche su LUISS Open, research magazine dell’Università LUISS