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un appello

Illustri accademici, premiate con il Nobel una donna che con smisurato talento racconta il mondo

Mariarosa Mancuso

Mica c’è bisogno ogni volta di reinventare la letteratura dalle origini, raccontando stregoni, capanne, riti atavici. Premiamo Joyce Carol Oates prima che si apra una nuova indagine sulle mani lunghe dei giudici

Illustrissimi accademici di Svezia, prima che venga da Voi proclamato il Nobel per la letteratura (tanti onori e la bella sommetta di 850 mila euro, gli interessi sul patrimonio di chi inventò la dinamite) avremmo qualche umile questione da porre. Si potrebbe – magari prima che vi mettano sotto indagine un’altra volta per le mani lunghe, e non proprio sui libri che dovreste leggere – dare un Nobel a chi pratica la letteratura come noi la conosciamo? A chi scrive e racconta storie, mentre negli ultimi anni siete riusciti a premiare due donne – Elfriede Jelinek e Annie Ernaux – che la letteratura la ammazzano di noia, quando non la fanno arrossire di vergogna? Siete riusciti a tirarla tanto in lungo che il sublime Philip Roth è morto, e quindi non più premiabile. Avete anche dichiarato che la letteratura americana è giovane e ha ancora ampi margini di crescita. Puro delirio, ma c’è un modo per rimediare. Premiate Joyce Carol Oates, classe 1938, 62 romanzi all’ultimo conteggio – l’ultimo, o forse già il penultimo, si intitola “Babysitter” (La nave di Teseo). Poi ci sono dieci romanzi scritti sotto pseudonimo, le poesie, i saggi letterari (qualcosa l’avranno pure tradotto in svedese).

Inutilmente si cercherebbero nei romanzi di Joyce Carol Oates tracce della sua biografia (a dispetto di un’infanzia difficile in una fattoria poco lontana dal lago Ontario). Inutilmente si cercherebbe un suo libro che somiglia a un altro. Ha inventato così tanti personaggi che si potrebbe rifare con lei al centro – magrissima, capelli ricci e occhialoni, la borsetta stretta tra le mani, sembra Olivia di Braccio di Ferro – la celebre immagine di Charles Dickens addormentato su una sedia e circondato dai personaggi di sua invenzione. Anche quando racconta storie accadute, la cronaca è un granello di polvere rispetto alle meravigliose perle di cui Joyce Carol Oates è capace. “Blonde” è dedicato a Marilyn Monroe (purtroppo rovinato da un brutto film che in omaggio ai tempi nostri descrive l’attrice come una vittima). “Acqua nera” racconta l’incidente di Chappaquiddick – il senatore Ted Kennedy e la sua segretaria Mary Jo Kopechne – dal punto di vista della segretaria annegata. “Sorella mio unico amore” è una variazione sul caso di JonBenét Ramsey, la piccola pattinatrice trovata morta nella cantina di casa. Famiglie, bande di ragazze, un’Epopea americana in quattro romanzi che inizia con “Il giardino delle delizie” e prosegue con “I ricchi”.

Brutte storie? Edipo si cavava gli occhi, saputa la verità sul suo passato parricida e incestuoso: certo la tragedia greca non può essere accusata di essere nata ieri. Storie che non vengono dai confini del mondo? Mica c’è bisogno ogni volta di reinventare la letteratura dalle origini, raccontando stregoni, capanne, riti atavici. O di scambiare per poesia i versi zoppicanti di Amanda Gorman (ora modella, per il bene di tutti). Illustrissimi signori, premiate per una volta una donna bianca, vedova di due mariti, che con smisurato talento racconta il mondo.

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