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Il figlio del Mago

Emanuele Trevi alle prese con la casa del padre nel suo nuovo libro. Jung, Paradisa e ironia

Marina Valensise

L'autore, nel suo ultimo romanzo, rovescia uno degli assunti più perniciosi dei tempi d’oggi. La figura paterna va protetta, tutelata, va amata, rispettata e celebrata come una specie in via di estinzione

Dio, patria e famiglia. Per carità, ma qualcosa sta cambiando e gli animi più sensibili lo avvertono. Tant’è che ci voleva uno scrittore attentissimo alla vita e però ribelle, trasandato, non conforme al punto di ostentare placidamente macchie di olio sulla maglietta spiegazzata quando parla in pubblico di autori favolosi. E soprattutto ci voleva Emanuele Trevi, il figlio ben amato di un famoso psicoanalista e guaritore di anime ferite, per rovesciare uno degli assunti più perniciosi dei tempi d’oggi. L’idea cioè che per esistere a pieno titolo, per vivere la nostra vera vita, occorra perpetrare l’omicidio più osceno che ci sia e uccidere il padre. Altro che morte simbolica e rituale, sembra dire Trevi nel suo ultimo romanzo La casa del mago (Ponte alle Grazie, 256 pp., 18 euro). Il padre oggi va protetto, tutelato, va amato, rispettato e celebrato come una specie in via di estinzione. E bisogna leggere questo libro per capire quanto il cambiamento sia vitale e salvifico.

Centellinare le pagine per prolungarne il piacere, e annotare le molte massime e gli aforismi che  costellano questo saggio autobiografico, che è un’ottima prova di autofiction, e un romanzo picaresco dove la verosimiglianza rincorre il vero, per mettere a nudo le illusioni della psiche e rivelare finalmente la realtà rendendola accettabile. E infatti Trevi mobilita una serie di figure reali, innanzitutto il Mago alias suo padre, Mario Trevi, psicoanalista di scuola junghiana e poetico quant’altri mai. L’io narrante occupa la scena con le sue idiosincrasie, la sua supponenza, la sua inettitudine conclamata, tanto assertoria quanto estenuante, e subito ci cattura, anche se è ben noto che la letteratura serve agli scrittori per reinventare qualcosa che forse hanno vissuto sulla propria pelle, e per trasfigurarla con le parole gettandola oltre sé stessi, per farla vivere di vita propria. Così che, come il vero Emanuele Trevi, il suo alter ego decide alla morte del padre di acquistarne la casa e di andarci a vivere, sfidando l’energia psichica depositata fra quelle mura. Deve riguadagnarsi il patrimonio per poterlo possedere come già suggeriva il Faust di Goethe e Sigmund Freud dopo di lui.

Eccolo dunque penetrare come un intruso in quell’antro inquietante al primo piano di un oscuro palazzo romano, trasformare lo stanzino in fondo al corridoio adibito un tempo a sala d’attesa in camera da letto, e immergersi come un rabdomante nelle cose appartenute al padre, la scrivania spropositata, la lucerna romana, la coperta di lana bucata dal proiettile di un nazista, la collezione di sassetti levigati dal padre con la carta vetrata. “Lo sai com’è fatto”, ripeteva come una litania la madre a proposito di quell’uomo assente e imponderabile al figlio bambino, il quale seguendolo a Venezia per visitare la Biennale (perché il padre a modo suo era un arista e un amante dell’arte) doveva premunirsi di una traccia che in caso di smarrimento  ne permettesse la riconsegna. Diventato grande, il bambino ricostruisce quel viaggio mitico e i tanti indizi della ricognizione di sé, la saponetta d’albergo infilata in tasca, la cinta dell’impermeabile afferrata a San Marco per non perdersi, salvo poi scoprire che il proprietario dell’impermeabile non era il padre, bensì uno sconosciuto, per di più calvo. Nostalgia, sensi di colpa, autoironia corrono lievi lungo il racconto, irrorandolo di una grazia infantile che traduce l’amore incondizionato o la pietas del figlio verso il padre, attraverso una sequela di episodi che sembrano la trascrizione di un sogno, il furto sul vagone letto, la prima notte fuori casa dell’adolescente cretino che parte in autostop per un concerto di Lou Reed a Firenze e al suo ritorno scopre il padre immobile su una poltrona con un libro in mano, che senza reagire, né punire, né sbraitare, si limita a sibilargli con tono dolente solo sei parole: “Io non sono quello che credi”.

Eppure niente di epico in questa mitologia del padre e nella liberazione psichica che produce. Come un figliol prodigo, Emanuele Trevi, che per essere uno scrittore nichilista conserva intatta l’anima del calabrese arcaico, slitta felicemente e forse in via preterintenzionale dalla pietas all’autoderisione, passa con levità dalla tragedia della Resistenza alla conquista di Paradisa, puttana peruviana con la pelle all’aroma di vaniglia, innamorata di Mussolini, “un verdadero hombre, uno che  si faceva obbedire”, e però pronta a assecondare i confusi desideri di un adolescente attempato, fino a riconciliarlo con la vita grazie all’accettazione della realtà.

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