Elaborazione grafica di Francesco Stati 

il libro

“Viaggi iniziatici”, compendio dei riti di passaggio

Ginevra Leganza 

I veri viaggi non sono legati al turismo e allo spostamento, ma all'evasione da sé

“Viaggi iniziatici” di Emanuele Trevi (Utet, 2021) è un bell’esempio di viaggio elevato alla terza, alla quarta, forse addirittura alla quinta. Questo breve testo mette in fila i tribali esotismi degli scrittori moderni, le trasferte iniziatiche di una vecchia Europa, i riti di passaggio, le tappe di chi – scrivendo – passa in rassegna i resoconti dei racconti altrui. Racconti che a loro volta sono allontanamenti. Evasioni da sé. Dopotutto, i veri viaggi assomigliano ai grandi libri: per questo c’entrano niente con turismo e smania d’inzeppare di spunte il mappamondo. Se viaggi davvero, viaggi soprattutto di testa, e prima di ripartire già speri di ritornare.

   

Esattamente quanto speri di rileggere prima o poi tutte le pagine che t’incurvano la mente. Sai che ci vorrebbe un colpo di senno per frenarti e non portarti sempre un po’ più in là, sai che sarà complicato – ora che l’hai finito – ricominciare daccapo, approfondire, sottolineare con un altro colore. E però sai che sono classici tutte le opere che puoi leggere due volte – lo diceva Gómez Dávila – e chissà Trevi quante volte ha letto i libri di cui scrive. Del resto, lui appartiene alla stirpe di quei lettori-scrittori, viaggiatori di biblioteche e autori di mappe letterarie come Pietro Citati, cui il libro è dedicato.

   

Il viaggio nel viaggio di Trevi si apre con le ricerche etnologiche fra i Dogon maliani del Dio d’acqua di Marcel Griaule e l’Alce Nero parla di John Neihardt, per poi passare al Grande viaggio in slitta di Knud Rasmussen con Carlos Castaneda in veste di nume tutelare. Le storie sono quelle di iniziati occidentali in fuga da un mondo smorto, al seguito di un altrove custodito da sacerdoti che spesso – prima di accordar loro fiducia – li reputano null’altro che ebeti bianchi.

 

A ogni modo, senza questo genere di antropologo, senza l’occidentale pallido, curioso, un po’ ficcanaso, trattato da idiota perché freddo al mistero, senza quest’uomo che contamina, sì, ma soprattutto trascrive, conserva, studia e racconta, senza di lui si sarebbero persi quelli che Trevi non stenta a trattare come testi sacri dell’umanità, depositari di storie e mitologie di gran classe. Il viaggio più bello è quello di Antonin Artaud che negli anni Trenta non è esattamente un antropologo ma un poeta assoluto prossimo al manicomio, oltreché teorico del “Teatro della crudeltà”. Nella parte settentrionale della Sierra Madre, astinente d’eroina, sperimenta il Peyote con la tribù dei Tarahumara. Si apre dunque un ulteriore viaggio nel viaggio che mette voglia di andare in Messico per dissolversi in una buona dose di mescalina. Il punto dell’iniziazione esotica è proprio questo: la dissolvenza dell’io, lo scrollarsi di dosso la sua pelle consunta. In sintesi, la morte dell’ego.

 

E allora torna l’istanza di Seneca: ma cosa diavolo sarà mai questa morte? Una fine o un transito? In questi casi è certamente un transito, un passaggio che presuppone la fine in un principio nuovo, l’entrata in una dimensione diversa. Mircea Eliade, protagonista dell’ultimo capitolo, vede nell’iniziato la risposta vivente a un’esistenza fallita. C’è un momento in cui la vita così com’è assume i toni cupi del fiasco, e l’insufficienza esistenziale apre la strada all’iniziazione. È su per giù quello stesso momento in cui da teenager, sigillati nella stanza come c’insegna Pascal, pur non avendo conosciuto ancora Messico e Peyote, cominciamo a leggere e leggere. Ci droghiamo di libri e viaggiamo nelle pagine che strappano alle carenze della realtà. A riprova che i libri sono appunto viaggi, e per di più viaggi iniziatici. Talvolta, psichedelici. 

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