Foto di Olycom 

ricordi

Caldo a New York. L'intimo di Marilyn Monroe nel frigo e i materassi a Central Park

Mariarosa Mancuso

Dal carretto col ghiaccio del giovane Arthur Miller ai senzatetto e lavoratori che dormivano per strada, il racconto dell'estate americana

"Vado in cucina a vestirmi”, dice Marilyn Monroe a Tom Ewell. La moglie è in vacanza, lui ha invitato la bionda a cena. In cucina? sicuro: “Sa, con questo caldo, gli intimi li tengo in frigo”. E’ l’estate a New York – fenomeno a noi ignoto, qui il caldo è un’opinione – per sempre celebrata nella commedia di Neil Simon. E nel film con Jack Lemmon e Anne Bancroft uscito nel 1975 (esiste solo in dvd, le piattaforme fanno un pessimo servizio, in materia di classici). Titolo: “Prigioniero della seconda strada” (“Avenue”, nell’originale).

 

Jack Lemmon è appena stato licenziato, manca l’acqua, la corrente salta e la nettezza urbana sciopera. Trova un taxi senza aria condizionata. Arriva a casa e litiga con l’ascensore (che invece funziona) e con la moglie. Scopre che gli hanno portato via il televisore, con la beffa: ha incontrato i ladri sulle scale, li ha salutati convinto che fossero i tecnici delle riparazioni. E dà di matto.
Arthur Miller ricorda la sua prima aria condizionata al Chelsea Hotel, dove viveva negli anni Sessanta. Non era granché, ricorda in un articolo pubblicato nel 1998 sul New Yorker. Bisognava rifornirlo con brocche d’acqua, sennò mandava caldo e non freddo. All’inizio spruzzava acqua, conveniva dirigere la macchina per l’aria fredda verso il bagno, verso il letto era un disastro. 

 

Con l’occasione, Arthur Miller – “Il crogiuolo”, “Morte di un commesso viaggiatore”, uno dei mariti di Marilyn Monroe – fa una breve storia della sua New York accaldata. Suo padre negli anni Trenta aveva una fabbrica di cappotti sulla Trentanovesima, gli operai tagliavano la stoffa spessa e sudavano copiosamente, fino a essere riconoscibili a distanza dall’odore. (Mr Miller senior per il resto era privo di olfatto, pare). Quando abitavano nella 110ª strada, il ragazzino Miller seguiva il carretto a cavalli che vendeva il ghiaccio, cercando di rubare qualche scaglia. “Sapevano un po’ di concime”, ricorda. Molto meglio il ghiaccio pestato con lo sciroppo, regolarmente comprato. La sua famiglia era troppo perbene per sedersi a prendere aria sulle scale antincendio, pratica abituale qualche blocco più su (alla 116ª strada cominciava Harlem).

 

Figuriamoci per portarsi i materassi a Central Park, dove centinaia di persone dormivano all’aperto, ognuna con accanto la sua sveglia per non far tardi al lavoro. A volte il caldo durava fino a settembre. Arthur Miller, nato nel 1915, ricorda le estati torride degli anni Venti. 
Coney Island era affollata da non poterci mettere piede, sui tram aperti con un nichelino si poteva andare e tornare, e poi ancora andare e tornare, come i barboni che oggi vivono in metropolitana e non scendono ai capolinea. 

 

Dopo la Grande depressione tutto andò molto peggio, fino alla tragedia lontano dalla città. Lo racconta John Steinbeck in “Furore”, uscito nel 1939. L’enorme catino infuocato e polveroso, la “dust bowl” delle tempeste di sabbia negli anni Trenta, capaci di oscurare il cielo fino a Chicago. Si poteva solo fuggire, verso la California delle arance e dell’uva. Se il camion di terza mano non moriva sulla Route 66.

Di più su questi argomenti: