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escursioni

Troppo caldo, meglio “a piedi nudi sotto il cielo”

Alfonso Berardinelli

Il sollievo di vagabondare lontano dalle città. Contro l'ideale del flaneur parigino di Baudelaire: per fortuna esistono i naturalisti!

Brutta, bruttissima questa estate. Forse il modo migliore di andare (o di mettersi) in vacanza è evitare i viaggi. Aeroporti e stazioni ferroviarie attirano poco. Ma anche solo camminare nelle città finisce per essere una pena, se il caldo è opprimente e si comincia subito a sudare. E’ per questo che mi metto a leggere qua e là il poderoso volume di Lorenzo Bersezio “A piedi sotto il cielo. Storia dell’escursionismo dalle origini ai giorni nostri” (Utet, pp. 483, euro 22).


Lo leggo per sapere qualcosa in più dell’escursionismo, un’attività che non ho mai praticato, forse perché da un paio di secoli ha una storia a sé, molto e sempre più connotata, come se qualcosa che prima era, nello stesso tempo, stravagante e naturale, si fosse applicato addosso ai praticanti come un fiero distintivo di speciale identità.

 

Negli specialismi c’è sempre qualcosa di fieramente esclusivo e un po’ maniacale. L’allontanarsi dal luogo in cui si vive per vedere, per conoscere il mondo, è una cosa che succede e si fa anche senza metodo né costanza né vocazione, e soprattutto senza organizzazioni e associazioni con un nome, una sigla, una sede, un presidente e degli iscritti. Ma sappiamo bene che il nostro è un mondo sociale che organizza, istituzionalizza, specializza, burocratizza tutto: anche il sesso.
Per quanto mi riguarda, pur avendo pubblicato centinaia e centinaia di articoli, non mi sono mai procurato una tessera di pubblicista e di giornalista, che forse mi farebbe comodo. Chissà per quale insondabile idiosincrasia, anche quando devo scrivere di me stesso “critico letterario” o “saggista” o “scrittore” mi sento a disagio, come se in questo ci fosse qualcosa che non va, qualcosa di cui vergognarsi.

 

Dunque non sono certo un “escursionista”. Al di qua e al di là della parola, quell’attività di camminare, di andare “a piedi sotto il cielo” mi attira per la sua semplicità, ovvietà, nudità. Gironzolare, vagabondare per il mio quartiere (Testaccio, a Roma), mosso da una normalissima curiosità, fu una cosa che feci quando avevo cinque anni. Non so se mi persi o se sentivo di voler “scappare da casa”; ma quando sono ricomparso dopo aver fatto preoccupare i miei genitori per circa un’ora, venni “picchiato” per la prima e l’ultima volta nella mia infanzia. 
Quella volta, e per un ragazzino di cinque anni, i due rami dell’escursionismo, cioè l’esplorazione e il vagabondare, non si erano ancora separati e distinti. Da un lato la ricerca conoscitiva, dall’altro il girovagare fantasticando, una cosa, quest’ultima, che i veri escursionisti senza dubbio disprezzano e rifiutano. 

 

Arrivo perciò a me stesso in quanto naturale non-escursionista, quando nel bel libro di Lorenzo Bersezio mi trovo davanti a pagina 84 e leggo: “In piena età romantica si diffuse un tipo speciale di camminatore: l’escursionista da città, denominato flaneur. Finora abbiamo incontrato solamente escursionisti immersi nella natura, appartenenti alla ‘scuola delle camminate campestri’ (…) Tuttavia nell’Ottocento si moltiplicarono i camminatori delle città: coloro alla cui vista gli escursionisti campestri inorridivano perché li vedevano muoversi a scatti irregolari lungo le affollate vie urbane”. 
Fu ovviamente Charles Baudelaire, inventore con alcuni altri della poesia moderna, a trovare la parola giusta, flaneur, per definire quello stravagante camminatore di città che era lui stesso. La città era Parigi, che mezzo secolo dopo Walter Benjamin definì “capitale del Diciannovesimo secolo”, sottovalutando Londra solo perché non sapeva l’inglese.

 

Parigi era un’antinatura, o una seconda natura, che per la grande massa dei suoi abitanti aveva sostituito la prima natura, quella uscita dalle mani di Dio. La grande città, tipico prodotto della società di massa e delle folle, era invece uscita dalle mani dell’uomo, diventato ormai inventore e creatore di se stesso come mai prima era avvenuto nella storia. Invece di andare incontro a quel tanto di divino che c’è nella natura, il successore del “passeggiatore solitario” che era stato il naturista Rousseau, cioè Baudelaire passeggiatore nella folla, va incontro all’antinatura, alla società super-concentrata nata dalle rivoluzioni industriali e dalle rivoluzioni politiche divampate nelle strade di Parigi dal 1789 al 1848. Baudelaire pensava, dice Bersezio, “che i cambiamenti economici e sociali avessero fatto crescere le città a dismisura, fino a farle diventare i paesaggi dominanti. Gli artisti dovevano dunque convertirsi in esuli errabondi negli agglomerati urbani della società capitalistica, assumendo i panni, come scrisse Benjamin, di ‘botanici del marciapiede’, per i quali ‘è una gioia eleggere il proprio domicilio tra la folla fluttuante, tra il fuggitivo e l’infinito’”.

 

Interessante argomento, questo, che noi critici letterari abbiamo masticato e rimasticato fino allo stremo. Ma per fortuna esistono anche i naturalisti, i conoscitori, gli osservatori e gli scienziati della natura, che da Plinio il Vecchio (morto per osservare troppo da vicino l’eruzione del Vesuvio) ad Alexander von Humboldt e a Charles Darwin, non smisero di curiosare davanti e dentro i paesaggi naturali collezionando ogni tipo di organismi viventi e di rocce. I loro diari si leggono oggi anche come eccellenti opere letterarie, ricordandoci che la natura è infinitamente più grande, ingegnosa e fantasiosa di noi. Sa inventare fiori, alberi e animali, organismi e microrganismi di fronte alla cui stranezza estetica e fisiologica restiamo senza parole. 

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