Marylin Monroe e Clark Gable in una scena dell'omonimo film (1961; fotogramma da Wikipedia)

Immagine e parola scritta: Arthur Miller aveva capito tutto

Marco Archetti

Se cercate un romanzo cinematografico, “Gli spostati” è quel che fa per voi

Quante volte capita? Un amico legge un romanzo. Gli piace, ne parla e ve lo consiglia di cuore. Per indurvi a dargli retta, cala l’asso e sfodera un’argomentazione lapidaria ma, secondo lui, decisiva. Questa: “E’ un romanzo molto cinematografico”. Frase che avrete sentito mille volte, mille volte buttata lì con disinvoltura al posto di quella giusta, che è sempre un’altra. Infatti “romanzo molto cinematografico”, come tutte le definizioni che in realtà non definiscono, può significare qualunque cosa. Può significare “romanzo avvincente” (come se tutti i film fossero portatori sani di trama incalzante: guardate “C’era una volta in Anatolia” di Nuri Bilge Ceylan e poi ne riparliamo – però tre anni dopo il regista si rifarà col capolavoro “Winter sleep”, un film, guarda un po’, molto letterario, ispirato al racconto “Mia moglie” di Anton Cechov). Può significare “romanzo efficace” (cioè, semplicemente, romanzo che fa il suo mestiere), oppure “romanzo molto minuzioso a livello descrittivo” (cioè romanzo noiosetto ma amato da quel genere di lettore bonariamente petulante, agopagliaista, proustiano vocazionale); ma anche “romanzo con splendidi botta e risposta” (a quel punto, però, ci si gioca la carta del “romanzo molto teatrale”), oppure “romanzo ambientato in luoghi già visti al cinema” (cosa che si potrebbe dire di qualsiasi romanzo ambientato a New York, a Roma o a Parigi).

 

A parte il fatto che non si capisca perché per celebrare le qualità di un romanzo si debba sempre dire che assomigli ad altro, è appena uscito un titolo che vi permetterà di giocare la carta “romanzo molto cinematografico” senza sbagliarvi: si tratta de Gli spostati di Arthur Miller (Nutrimenti, 158 pp., 15 euro), edizione che arriva a sessant’anni dal film di Huston, nato proprio da questo testo e scritto e pensato per Marylin Monroe – lei e Miller divorzieranno a gennaio 1961, in Messico, appena dopo la fine delle riprese. “Ogni parola è lì allo scopo di dire alla telecamera cosa vedere e agli attori cosa dire”, scrive Miller nella nota introduttiva. “Gli spostati usa le prospettive del cinema per creare una finzione che possa avere l’immediatezza tipica dell’immagine e le possibilità riflessive della parola scritta”. Non solo: laddove possibile – come aggiunge in postfazione il traduttore Nicola Manuppelli – allo scopo di favorire l’alleanza tra lettura e visione, i dialoghi sono tali e quali nel film.

 

Romanzo di smisurati spazi aperti e di memorabili ambienti chiusi (bellissime le descrizioni di ogni bar), si apre a Reno, Nevada, la più grande piccola città al mondo, dove si incontrano Roslyn, che è nella capitale mondiale del divorzio giusto per divorziare, e un terzetto di uomini, ognuno con qualcosa da dimenticare: il vecchio allevatore Gay, una frontiera che non esiste più; l’ex aviatore Guido, la morte della moglie; Perce, cowboy da rodeo, i nodi irrisolti del suo rapporto con la madre – straccia il cuore la telefonata che le fa quando appare in scena. Ecco la sua descrizione: “A quasi trent’anni è un cowboy da rodeo, il che vuol dire uno senza fissa dimora, che dorme sempre con gli stessi vestiti, capace di essere ricco e squattrinato nello stesso pomeriggio”. A Roslyn-Marylin, Perce dirà: “Come mai c’è tanta fiducia nei tuoi occhi? Come fossi appena nata”. Tutti e tre se ne innamorano, amando in lei la purezza, l’origine incorrotta, tra scenari che sono la forza del racconto e mezzogiorni sterminati, polveroni, fattorie, cavalli selvaggi e un conflitto uomo-natura che racconta un cambiamento epocale nella storia americana. Gli spostati sono proprio loro: i misfits, come gli ultimi cavalli di un branco. Quelli che vagabondano perché non sanno dove andare, creature disperse da una storia che ne ha dimenticato i sogni e che presto guarderà altrove.

 

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