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E' di Bellocchio il romanzo più credibile sull'Italia di fine Novecento

Matteo Marchesini

Il Diario è un buffet in cui ogni lettore può trovare il suo cibo. Immagini, ritratti, aforismi e l'esperienza dell'impresa editoriale "autogestita"

Piergiorgio Bellocchio non c’è più da due mesi, e io non riesco ancora a immaginarlo morto. Di solito lo si dice di famigliari o amici stretti; ma Bellocchio per me non lo era, anche se ho avuto il privilegio di passare con lui un po’ di tempo. Mi è capitato lo stesso con Roberto Roversi. Entrambi gli scrittori hanno scelto di allontanarsi dall’industria culturale, stampando e distribuendo in proprio le loro riviste, i loro saggi o poemi, riluttanti a lasciarsi chiudere integralmente in un libro. E’ forse quest’opera a puntate, sempre in fieri, che si cerca i lettori uno per uno, a rendere i suoi autori inconciliabili con ciò che di irreparabilmente ufficiale e monumentale ha l’idea della morte?

 

Nel Diario del Novecento, uscito ora dal Saggiatore a cura di Gianni D’Amo, Bellocchio rivendica con orgoglio la sua “impresa autogestita”, e ironizza sui giovani intellettuali che magari si dicono marxisti ma preferiscono trovarsi subito un editore, ossia un padrone. Confrontando la breve collaborazione a Panorama con l’esperienza collettiva dei Quaderni piacentini e con quella di Diario, la rivista cucinata a quattro mani insieme a Berardinelli, Bellocchio ha capito che pubblicare sulla grande stampa significa avere decine di migliaia di lettori soltanto ipotetici, ed essere per loro una firma uguale a tante altre; mentre pochi ma reali sono gli interlocutori che si raggiungono autoproducendosi e imbustando personalmente i propri scritti. Col tramonto della Nuova Sinistra, questi scritti bellocchiani hanno preso sempre più la forma del journal, nel senso di “diario di lavoro” ma anche di “contro-giornale”: e il volume del Saggiatore ne offre un’ampia antologia, tratta dai quaderni che l’autore ha riempito tra il 1980 e il 2000.

 

Per chi ama i libri che si possono leggere a spizzichi e bocconi, senza rispettare l’ordine delle pagine, è un buffet succulento: i lampi aforistici si mescolano ai racconti famigliari, le recensioni cinematografiche si alternano ai ritratti affettuosi ma mai indulgenti di maestri, amici o persone umili (Fortini, Cherchi, la domestica Annetta), e le polemiche sul costume italiano, condotte con l’aiuto costante di “Pinocchio” e dei Vangeli, convivono con le molte citazioni senza commento, che strappandoli krausianamente al contesto rivelano l’indecenza di una pubblicità, di un titolo giornalistico o di un avviso dell’azienda dei trasporti. Il montaggio dà come risultato quel libro sull’Italia del XX secolo di cui il diario avrebbe dovuto essere solo la premessa, e che rimane inscindibile dall’autobiografia di Piergiorgio: l’infanzia fascista, l’adolescenza democristiana, la giovinezza libertaria, l’incontro col popolo comunista, il progressivo isolamento…

 

In questo testo sono importantissime le immagini. Bellocchio, che ha il fiuto dello storico e dello psicologo, è infatti uno straordinario interprete di volti (da Jemolo al pugile Cerdan) e un maestro insuperabile di ekphrasis. A noi una foto che ritrae quattro bambini poveri degli anni 50 può sembrare uguale a mille altre; ma lui, incollandola sul suo quaderno, si accorge che se hanno gli stessi vestiti laceri di padri e nonni, a differenza di loro ridono disinvolti: perché sono passati gli americani, perché il boom è dietro l’angolo. Altrettanto sorprendenti sono le riflessioni con cui in poche righe, che però presuppongono il vaglio di un vastissimo campo del sapere, il diarista coglie un denominatore comune tra figure diverse, o un’eccezione notevole all’interno di un gruppo omogeneo. A un certo punto, ad esempio, per sostenere che la “triste scienza” non è la filosofia, come vorrebbe Adorno, bensì la medicina, rileva che le pagine più sconsolate del ‘900 sono state scritte “da due medici: Céline e Benn”. Altrove elenca le precedenti professioni dei dittatori fascisti europei, aggiungendo che solo uno non ne aveva alcuna: il più “professionale”, Hitler.

 

Che parli di ideologie o di fumo, di disegni erotici o di artigianato, Bellocchio lascia aleggiare su ogni pezzo la stessa domanda: “come vivere?”. Critico dotato, in politica e in estetica può comunque sbagliare; ma per la morale ha l’orecchio assoluto. A premergli è il confronto tra le idee professate e la condotta di vita: “LEI E’ COMUNISTA? ME LO DIMOSTRI!” recita un suo formidabile aforisma. Lo interessano gli autori in cui l’essere e l’agire non diventano un mero tema letterario, ma mettono in crisi la scrittura: “Tolstoj, Kafka, T.E. Lawrence, Orwell, Wittgenstein, Simone Weil”… Più in generale, ritrae spesso gli artisti a un bivio etico: ci mostra Mann che esita a condannare il nazismo, o Gide che “tergiversa, civetta”, ma che messo con le spalle al muro mostra la sua “integrità” come nel reportage dall’Unione sovietica; e quando alla morte di Sterling Hayden scopre che l’attore aveva ceduto al maccartismo, collega subito questo cedimento alla sua faccia da “orfano” a un tempo umiliato e complice, scrivendo che nel non esserselo perdonato sta il suo “onore” (parola cruciale del “Diario”, insieme a “bontà” e “decenza”). E’ poi ancora la sensitività del moralista che costringe Bellocchio a vedere e udire con quotidiana sofferenza le stonature stilistiche a cui nessuno sembra fare più caso. Come può quell’ex sessantottino usare i vecchi toni da ribelle, ora che è al governo col Psi? Non capisce che la rabbia si giustifica solo con l’esclusione, e il potere impone invece “la calma dei forti?” E come fanno le donne del Pds a illustrare una loro iniziativa con i quadri di Tamara de Lempicka, pittrice del mondo miliardario e snob?

 

Dati i presupposti, non stupisce che parecchi appunti del Diario riguardino le espressioni gergali in quanto sintomi della civiltà. Nel 1988 Bellocchio ragiona sul fatto che non si dice più “faccia di bronzo”, perché con l’inflazione degli impudenti il bronzo appare troppo prezioso; ma anche “faccia di tolla”, vista la rivalutazione della latta, non va più bene: bisogna passare alla plastica. Annotazioni del genere fanno pensare a Gramsci, così come quelle sulle catastrofi dovute a un progresso che avanza col pilota automatico riecheggiano Leopardi: altri due autori di zibaldoni che, ci ricorda Bellocchio, pur essendo “sventurati, rachitici, gobbi”, sono diventati gli intellettuali “più virili” della nostra modernità. E’ proprio il male biologico, è “l’esperienza precoce” della malattia e del suicidio in famiglia ad avere sviluppato in Piergiorgio la “ghiandola etica”, e ad avergli tolto ogni istinto arrivista. Ma appunto perché negli esami di coscienza è così severo, ammette tuttavia che se non ha sgomitato per emergere lo deve anche alla nascita borghese. Non dimentica mai, insomma, che i militanti operai e contadini con cui ha condiviso anni di lotte non mangiavano il suo stesso pane: i suoi soli, letterali “compagni”, dichiara nel ’93, sono stati i ragazzi conosciuti nell’adolescenza, l’età del “comunismo naturale”.

 

Rotta la crosta del marxismo fortiniano, in Bellocchio si rivelano via via più chiaramente due tendenze contrapposte: da un lato il rispetto per il meglio della vecchia borghesia di cui è figlio, cioè per la scrupolosità e il lavoro ben fatto; dall’altro lato l’ammirazione per un individualismo di stampo anarchico e per le scelte coraggiose, solitarie, imprudenti. Gli stessi tratti, uniti alla lezione dei moralisti francesi, si trovano anche nell’unico libro che, benché nato sotto una costellazione storica e ideologica molto diversa, per schiettezza e varietà di umori mi sembra paragonabile al “Diario”: i “Pensieri di un libertino” di Arrigo Cajumi.

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