Perché aspettiamo fiduciosi che Bellocchio pubblichi l'antologia dei suoi diari
C'era bisogno di risentire la sua voce e attraverso di essa quella del suo maestro, in questo tempo sempre più pubblicitario e compiaciuto, anche nella narrativa
Questo articolo è un incoraggiamento per Piergiorgio Bellocchio, che alle soglie dei novant’anni sta mettendo assieme un’antologia dei suoi diari. So quanto connaturata sia all’autore la resistenza a pubblicare, e quanto questa resistenza possa oggi essere rafforzata, oltre che dalla grafomania ormai endemica degli italiani, dall’isolamento che sentiamo un po’ tutti. Ma nei quadernoni neri che per decenni ha allineato sugli scaffali del salotto c’è una lezione di cui abbiamo più che mai bisogno. Bellocchio li ha riempiti di quella prosa satirica, narrativa e autobiografica che dopo la chiusura dei “Quaderni Piacentini” ha sperimentato su una rivista scritta a quattro mani con Alfonso Berardinelli e intitolata proprio “Diario”.
Lavorando di forbici e colla, su quei quaderni il diarista ha accumulato un imponente archivio d’imbecillità e di orrori ritagliati dalla stampa, e li ha chiosati con stile krausiano. In un dettaglio minimo (uno spot, un titolo, un refuso) Bellocchio sa cogliere un inquietante sintomo sociale o morale, e soprattutto sa commentarlo senza accenti predicatori, con un tono che al sarcasmo mescola una desolata pietà per sé e per gli altri, ma anche una curiosità mai spenta per il sapore acre dei faits divers. Accanto agli interventi politico-culturali, il giovane dei “Piacentini” coltivava una vena da narratore. Poi il racconto e il saggio si sono fusi nella tecnica mista della maturità. Poteva sembrare una doppia resa, di militante e di scrittore. E invece proprio grazie a questa svolta Bellocchio è riuscito a scrivere alcuni eccezionali racconti sulla società italiana, e in particolare sulla trasformazione della vecchia borghesia gretta ma dignitosa dei suoi avi nella spudorata middle class di coloro che “vogliono tutto”.
Si vedano ad esempio, nella raccolta del 2007 “Al di sotto della mischia”, le pagine di “Ristorante sul mare”, dove un imprenditore e la moglie, mentre divorano decine di esseri viventi, immaginano l’aldilà come un mero prolungamento della loro vita di lusso. Ma è già la vita del Duemila che somiglia a un oltretomba, a giudicare da come l’autore descrive la sua provincia padana di teppisti motorizzati, oscenità condominiali, dialoghi beckettiani captati per un’interferenza telefonica che mette “l’intimità del dolore” in sinistro contrasto con “la profana pubblicità” del mezzo (chissà se Bellocchio si affacciasse ai social…).
Ciò che resta della dignità sembra potersi esprimere quasi solo per via indiretta, come capita nel mirabile paragrafo di “Dalla parte del torto” sul dittico in cui Cranach ha rappresentato Lutero e Melantone. L’uno, dice Bellocchio, mostra ormai “la solennità dura e enigmatica del capo indiscusso”; l’altro invece esibisce uno “sguardo perso nel vuoto, per non fissare un presente troppo penoso”. E’ l’umanista che a differenza di Lutero non può rifiutare il dubbio, ma che a differenza di Erasmo ha scelto la rivoluzione, “pur consapevole che (…) è comunque una tragedia, anche quando vince”, perché ha un prezzo terribile e “non c’è vittoria che non sia anche una sconfitta”. Sono parole scritte nell’89: e leggendole si pensa naturalmente alla sorte del marxismo, a cui l’autore, come il suo maestro Fortini, ha legato tanta parte della sua esistenza.
Berardinelli paragona Bellocchio a Cesare Garboli, sostenendo che entrambi, nei loro saggi, ci hanno raccontato l’Italia di fine Novecento molto meglio dei produttori di fiction costantemente impegnati a romanzare la storia. Se è vero, e credo che lo sia, viene da chiedersi come mai. Per rispondere può essere utile ricordare che a chi gli domandava perché non scrivesse un romanzo, Garboli spiegava di possedere sì una vasta immaginazione, ma un’immaginazione non creativa, e di avvertirla quindi come una dote negativa, perfino deprimente. Riducendola con astuzia a un fatto personale, non alludeva forse a una questione che ci riguarda tutti? Non stava forse suggerendo che la cosiddetta creatività diventa sempre più una specie di muffa fantastica che impedisce di inventare, cioè di scoprire e riconoscere la realtà?
Per quel che riguarda Bellocchio, l’interrogativo mi fa subito venire in mente due dei suoi eroi letterari: Aleksandr Herzen, rivoluzionario sconfitto che ha scritto il suo capolavoro non come narratore puro ma come memorialista, e Christopher Isherwood, che ha trovato sé stesso quando ha abbandonato l’ambizione sbagliata del romanzo-affresco e si è messo a truccare appena la propria autobiografia in magri pannelli narrativi. Secondo Fortini “Herzen crea un genere perché è un genere”, ossia un “modo di essere”. Qualcosa di simile si può dire di Isherwood, rispetto al quale tanta pur ottima letteratura sembra fabbricata con sforzo. A inizio anni Sessanta, abbandonando per un momento il suo stile impassibile, l’autore di “Leoni e ombre” dichiarò ad Arbasino che i nuovi prosatori americani erano “tutti troppo slick, snob, chi-chi, NewYorkerish (…) troppo compiaciuti, troppo abili”, e che Salinger lo faceva addirittura “vomitare”.
In verità il creatore del giovane Holden è uno scrittore notevolissimo. Ma si capisce qual è il punto: il suo nome vale qui come sineddoche della produzione letteraria che si studia nelle scuole di scrittura, dove si viene artificiosamente stimolati a compiere una ginnastica narratologica che alla fine mette tristezza, perché non se ne vede più bene la ragione. E forse si è così frenetici nel fare appunto perché non si vuole riconoscere il proprio essere. Il che ci riporta dall’irrealtà dell’arte a quella delle nostre esistenze, di cui i diari di Bellocchio continuano a registrare la crescita con occhio implacabile e umanissimo. Li aspettiamo.
Intervista a Gabriele Lavia