George Grosz, “Autoritratto con modella”, olio su tela, datato 1928 (Olycom) 

La folle vigilia degli anni Trenta, tra gli spasimanti al tempo dell'odio

Ginevra Leganza

Dal ’29 fino al disastro della guerra si compone un mosaico di erotomani e invertiti, satiri e ninfe. Il passo prima dell’abisso, in un saggio di Florian Illies

A un certo punto, passeggiando nel Novecento, può capitare di restare inchiodati. Ci si blocca sulla bocca appena schiusa di un abisso. Sono gli anni Trenta, che raccolgono i fotogrammi a un soffio dalla Seconda guerra mondiale. Spesso gli incontri, i legami, gli amplessi, gli addii sono i filtri per entrare nella storia, i regolatori fra il sapere e il sentire. Florian Illies, storico dell’arte tedesco, regola il nostro sapere storico con tutto il sentire vorticoso di fughe e di lenzuola. Leggete L’amore al tempo dell’odio (Marsilio, pp. 384, 19 euro) e godetevi la passeggiata sull’orlo del baratro. Illuminati dal sole di Parigi o scagliati nel crepuscolo stupendo di Alexanderplatz. 

E’ il 1929 e il mostro della guerra si stiracchia prima di marciare alla volta di un continente alla deriva. Un mostro progenitore di quello che ci impegniamo a seguire oggi in ogni suo passo.  Nel 1929 c’è chi lo aspetta al Jardin du Luxembourg, il mostro; chi lo invoca fra i palazzoni berlinesi, vicino ai carretti dei birrai. E c’è chi in sua attesa si trascina in un vento di freddissima lussuria. Sono i fantasmi sensuali di questo viaggio in Europa. Gli amanti avvolti in manti grigi. Spasimanti al tempo dell’odio. “Nessuno crede più al futuro, in quel 1929. E nessuno ricorda volentieri il passato. Per questo si abbandonano tutti senza remore al presente”. La tempesta in arrivo spinge le anime a dimenarsi fra i letti e i caffè, il rumore della rovina le porta a godersi la festa finché dura. E c’è veramente di tutto nel viavai carnale degli anni Trenta. Ragazze infiammate dai maestri, cortei di morfinomani, ardori omosessuali, girotondi saffici. Tutto si fonde e si condensa nell’aria di quegli anni. Ma certo non parliamo dell’amore di gente comune, di quella risma da cui Bukowski metterà in guardia. “Attenti agli uomini comuni / alle donne comuni / attenti al loro amore / il loro è un amore comune, che mira / alla mediocrità”. In questo caso non dobbiamo stare attenti se non al rischio di emulazione, che ci prenda dopo quasi cent’anni e ci porti a concupire oltremisura in un tempo nero com’è il nostro. Niente gente comune, quindi. Tutto in queste storie ha sapore di lusso, sperpero e immodestia. Tutto prende il colore inconsueto delle ombre, l’odore di temporali erotici. Tutto si spezia di divismo, capricci e inganni a mezzo poetico. E’ il reame di un cupo poliamore. Quello che oggi si tinge di ostentazione arcobaleno, poco meno di cent’anni fa si consumava nelle alcove del cuore. O se non altro si praticava senza chiasso, con una certa nonchalance. 

Piantati i semi degli anni Venti, i Trenta cominciano a produrre frutti velenosi. Il mostro avanza e bracca la terra da più fronti. E se c’è chi come Curzio Malaparte vede in Hitler una figa isterica, ci sono anche le donne che degli isterici si innamorano. Accade ad Alma, già moglie di Mahler, amante di Kokoschka, congiunta adesso a Franz Werfel. Altro che il duce, sentenzia la accalappia-geni. Lui sì che è un giovanotto dal viso vero. E insomma il mostro si nutre di complimenti, si mette in forze e avanza. Su questo e sull’altro fronte.

Nella terra che in questa fresca primavera ipnotizza tutti, si prepara un cocktail di inedita crudeltà. La neve accarezza il Cremlino mentre a palazzo ci si imbelletta per festeggiare il quindicesimo anniversario della Rivoluzione russa. E’ l’ultima cena della trentunenne Nadja Stalin, nerovestita e trapuntata di rose rosse. La signora siede al tavolo con aria nevrile. Assiste allo scempio di un marpione che getta briciole nella scollatura di una commensale. Il marpione è proprio suo marito. Lei lo guarda e non si trattiene più. Gli rinfaccia tutto, crimini politici inclusi. In quelle stesse ore, infatti, l’Ucraina è mangiata viva dalla belva della carestia. E’ lo Holodomor, il nome ucraino dato alla morte per mancanza di cibo, tornato oggi nell’impegno di imparentare il passato al presente. La fame programmata da Stalin, quella sera, costringe la moglie a non mangiare più. Nadja non brinda e scappa nella sua stanza, col sangue che le sale al cervello. Il marito invece continuerà a bere tutta notte, si ubriacherà per poi sprofondare nella sua branda da campo. Si risveglia col sole e con la sorpresa di una moglie – la sua seconda moglie – morta suicida. La signora Stalin si spara con indosso il vestito nero trapuntato di rose in pendant col rivolo rosso colante dalle labbra. Com’è ovvio il marito non conosce senso di colpa o pietà. In chiunque scorge i segni del traditore, ma Nadja è ben più di chiunque. Sua moglie lo abbandona, ed è il massimo impostore al quale mai potrà perdonare di aver contrastato, a costo del gesto estremo, il suo piano di morte all’Ucraina. Al tempo dell’odio Nadja sarà amata e mai dimenticata, né da Stalin né dai russi che ancora vestono di fiori la sua tomba.   

Balzando un po’ indietro al fatale ’29 ci sono Sartre e De Beauvoir firmatari di un patto: devono dirsi tutto. Nel loro comunismo dei cuori le scappate e gli scossoni non godono del diritto alla proprietà privata. Sono bandite le reticenze e al diavolo il mistero. E così il secondo sesso, ovvero la giovane filosofa, si tempra nell’ascolto dell’uomo “basso, con gli occhiali e molto bruttino”, il secchione sgraziato che le racconta il fiore delle sue conquiste. E questa è solo la prima delle storie insidiate da nuvolacce apocalittiche. Fra i due non esiste il mistero. Ma da qualche altra parte c’è chi nel mistero vede il senso del talamo. “Nel matrimonio non è indispensabile condividere sempre tutto”, scrive un poeta a Vienna. E quanti divorzi eviteremmo se lo prendessimo in fede. La signora Hofmannsthal non si strappa i capelli – come invece faremmo noi – se dopo l’irreversibile “sì” scopre di non avere interesse per le cose di suo marito. E lo stesso Hugo è sereno. Preferisce un saggio matrimonio un po’ moscio ai tumulti della vita sciolta. Meglio il coniugale “carcere soave”. Molto meglio degli agguati di Afrodite. Per lui la fuga dai legami significherebbe destinarsi a un limbo, “vegetare in una sorta di stato preesistenziale”. Ed è forse questo quanto sperano i liberi per natura, quelli che non si fidanzano e non si sposano. Magari anelano alle altezze della preesistenza. E’ lì che vogliono tornare. Per tuffarsi nella carne e poi morire in un silenzio casto. E chissà cosa direbbe oggi il poeta, vedendoci tutti un po’ più limbici, un po’ più scettici dinanzi alle fedi… Ma Hofmannsthal il ligio, che ancora ancora può brillare a Vienna, non è tagliato per le altre città. Altri luoghi non capirebbero il cantore degli amori classici. Non lo capirebbe Berlino, ad esempio, la metropoli ruggente. La capitale del peccato senza il fuoco dell’inferno. Perché nonostante sia la Sodoma del tempo, o forse la Babilonia – come la chiama Curt Moreck – quelli che battono lassù sono cuori di ghiaccio. Il ponte fra le due guerre è di un irenismo talmente asettico… E’ la “pace fredda”. Il vizio è portato in città come Ernst Jünger porta la pelliccia delle Tempeste d’acciaio. Un buon titolo, questo, per dire dell’era glaciale berlinese. La pace è fredda e dura. Non c’è più spazio per lo spontaneismo. Gli attori in Germania sono tanti e hanno tutti imparato la spietatezza. L’indifferenza regna come una forza cieca qui più che altrove. Forse un presagio li informa che dai quei confini zampillerà un odio assai tossico, rispetto al quale conviene coltivare l’apatia. Loro lo sentono e si abbandonano a cerimonie tanto voluttuose quanto apatiche. E’ la Nuova oggettività metropolitana. “Sia lode alla freddezza!”, dice Bertolt Brecht. E così Otto Dix e George Grosz aprono il petto a un vento polare. In fondo il cuore – chiosa Illies – è solo un muscolo. Di certo l’avrebbe sottoscritto Gottfried Benn, altra immensa star dell’amore diluito nell’odio. Il cuore è sicuramente un muscolo per Benn, medico poeta che ama con lo stesso cinismo di un bisturi. E se pensate si tratti esclusivamente di maschi insensibili, vi sbagliate. Illies lo spiega bene che il genere non c’entra. Non sono solo i maschiacci a sottrarsi all’enfasi. Anche le femminucce si trasformano in solenni depravate. Decenni prima diceva Baudelaire che il dandy è maschio e fotte male: fottere è il lirismo del popolo, è l’entrata in un altro, e l’artista non esce mai da se stesso. Ebbene, Tamara de Lempicka è l’algida pervertita, donna dandy e sapiente corporale. Maschi o femmine che importa, lei negli altri entra ed esce a gamba tesa. Ma tutta la masnada di amanti non è che il carburante dei suoi pennelli. E’ lei che torce il flusso delle cose, come quando cassa D’Annunzio – lui così italo-passionale, così poco cool. Avrebbe dovuto ritrarlo, ma il vate ci prova e lei lo manda via, costringendolo a ripiegare sulla cameriera. Tamara guida la sua vita a bordo di una Bugatti, sfrecciando con eyeliner e foulard. E anche la storia, premendo sull’acceleratore, mescola le carte. Confonde i sensi e i costumi. E alla fine sconfessa il mito del dandismo maschilista. 

Il mosaico di Illies mette insieme erotomani e invertiti, satiri e ninfe: il genio pittorico di Pablo Picasso e Salvador Dalí, quello filosofico di Hannah Arendt e Martin Heidegger, il fumo sinuoso di Marlene Dietrich… E ancora: i primi due figli di Thomas Mann, Erika e Klaus, entrambi omosessuali e pure etero all’occasione. Avvinti al punto da condividere tutto, per poco anche gli amanti, sfiorando l’incesto. Ma nel mosaico ci sono persino i monaci del pensiero. Nell’affanno della tenerezza spicca chi si ritira in un guscio. Nel 1931 Ludwig Wittgenstein annota così: l’uomo è un animale cerimoniale. E in quello stesso anno la vita per lui diventa un rito. Nessuna tappa della quotidianità può essere disattesa. Il maestro dell’ordine sa sbrogliare quasi tutti i nodi. Fa eccezione il groppo al cuore. Il suo guscio è una capanna solitaria a Skjolden, in Norvegia. Di tutto ciò di cui non si può parlare si deve tacere – il filosofo ne è ancora convinto – ma benché il cuore parli e urli, lui tace. La sua vita amorosa è una strana sintesi di impaccio e ascetismo quando invita Marguerite Respinger a percorrere mezza Europa per raggiungerlo. Ancora non sa se sarà in grado di amarla, e allora la confina in una fattoria poco distante dalla sua capanna, tra i contadini scandinavi, in compagnia di una Bibbia sul comodino. Il segnalibro apre su Corinzi 1, capitolo 13: “L’amore è paziente, l’amore è buono. Sopporta tutto, crede a tutto, spera in tutto, resiste a tutto”. Inno alla caritas, affinché Marguerite lo aspetti. Ma coi tempi di Wittgenstein occorre piuttosto la pazienza di Giobbe. Il mistico della logica si sente un porco a pensarla nuda, e la tiene lì appesa, senza mai deliziarla di una capatina. E’ l’indeciso cronico, uomo fuori dal tempo ma vicino agli indecisi cronici di ogni tempo. Fratello di quei maschi soliti dimenticare che l’amore è sì paziente, ma insomma anche la pazienza ha un limite.

Sono troppi e troppo belli i mari d’amore di Illies. Sembra non mancare proprio nessuno. Da Benjamin in riposo a Ibiza all’intrattabile Hesse che strappa le erbacce per tirarsi via dallo stress amoroso (altro che Om, altro che Siddharta). In pieni anni trenta c’è Hemingway stufo di Parigi, la città che stanca da tanto è bella. E’ come una ragazza che non incassa i segni del tempo, dice, e rimane sempre giovane e sempre alla ricerca di nuovi amanti. Proprio a Parigi Hemingway asciuga le lacrime alcoliche di Scott Fitzgerald, sfiancato dalla moglie rivale. Anche Zelda si cimenta nel romanzo, ma un letto è troppo stretto per due coniugi scrittori. I due litigano come forsennati. E se l’una si rifugia nella passione per la danza – prima di procurarsi lo stigma di schizofrenica – l’altro beve. Beve talmente tanto che quando il New Yorker gli commissiona un pezzo autobiografico lui manda, per tutta risposta, l’elenco degli alcolici che ha bevuto. 

Alla fine solo per Hugo von Hofmannsthal il matrimonio è una tregua dagli affanni. Ma il campione della pirotecnica nuziale, in quegli anni, è certamente Bertolt Brecht. La sua epopea sentimentale comprende donne in ogni angolo di mondo e raggiunge l’acme proprio nel giorno delle nozze. Ha un figlio da Helene Weigel, la donna ruvida che sceglie di sposare, quasi sovrappensiero. Subito dopo il “sì” a Charlottenburg si precipita nei pressi della stazione Berlino-Giardino. Va dall’amante con ancora il mazzo di narcisi in mano. Ma lei lo sa che il vero narciso è lui, e con quei fiori, e con tutta la furia in corpo, lo percuote più che può.   E insomma gli anni trenta sono il passo prima dell’abisso. Il momento in cui l’umanità dona a se stessa un autoritratto di magica frenesia. Con tutti gli amori che diventano crepe nell’affresco del tempo, fessure nelle quali si gettano gli occhi in cerca di una luce diversa. Così il teatro dei piccoli mondi urta la grande storia, e in questo scontro si producono musiche meravigliose.