Georges Kiejman, l'uomo con i baffi, dopo un'udienza del processo sulla morte di Lady Diana nel 1999 (Ansa)

Il gran viveur

La vita eccezionale di Georges Kiejman, il penalista più famoso di Francia

Marina Valensise

Ha difeso Polanski, ha consigliato Mitterrand. A quasi novant’anni, l'avvocato si racconta in un libro

Calvo, alto, una faccia da ussaro, con mascella insistente, zigomi pronunciati, sguardo da saetta, due baffetti sulle labbra sottili, l’andatura imponente, era facile riconoscerlo Maître Kiejman. S’aggirava fra le strade del VI arrondissement col suo Burberry alla Simenon, la cartella di cuoio rigonfia, e il cappio di pashmina intorno al collo. Percorreva ad ampie falcate  il tratto che separa la rue Jacob, dove abitava,  dalla  rue de Tournon, dove aveva il suo studio. A volte lo  si vedeva spingere una carrozzina, quella della figlioletta, avuta a cinquant’anni da Laure de Broglie,   principessa fin de race, discendente della grande aristocrazia francese, con ramificazioni sino a duca di Berry e più in su fino a San Luigi, convertita al giornalismo televisivo e diventata poi la sua terza o quarta moglie.  George Kiejman non era solo il glorioso ex amante trentenne della cinquantenne Françoise Giroud, la regina della stampa francese, mollata dal fondatore dell’Express Jacques Servan Schreiber e salvata in extremis dal suicidio. Non era solo l’ex corteggiatore di Nicole Garcia, l’amico di Fanny Ardant e l’ex marito di Marie France Pisier, la bellissima, intelligentissima attrice, egeria della rivoluzione cubana e sorella dell’ex moglie di Bernard Kouchner, già fidanzata di Fidel Castro Évelyne Pisier, precipitata poi nella sordida storia di incesto per colpa del secondo marito Olivier Duhamel.

 

Era soprattutto il penalista più famoso di Francia. Un principe del foro dall’eloquenza lussureggiante e mai studiata, irradiata di feroce ironia. Era l’avvocato star delle star  del cinema, da Jean Luc Godard, salvato dalla censura negli anni Settanta, a Simone Signoret, di cui era diventato intimo amico. Ma era anche  il difensore di grandi editori come Gallimard, di intellettuali sulfurei, come il situazionista Gérard Lebovici e suo compare Guy Debord,  teorico della società dello spettacolo che lo prendeva  per i fondelli,  come il guerrigliero  Pierre Goldman, rivoluzionario dedito per la causa alle rapine a mano armata, sostenuto da Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir e  Régis Débray, e assolto grazie a Maître Kiejman dall’accusa di omicidio. È stato anche l’avvocato di alcuni italiani tentati dal terrorismo come Bifo, Franco Piperno e Toni Negri. E l’ispiratore della dottrina Mitterrand  che negli anni Ottanta ha concesso asilo politico agli ex terroristi  che non si fossero macchiati di delitti di sangue  e avessero rinunciato  alla lotta armata,  proteggendoli dall’estradizione.

 

È stato amico e difensore di Roman Polanski, l’ebreo polacco nato in Francia come lui, ma sopravvissuto più di lui a un tremendo destino che si è accanito contro, sin da quando a  tre anni era è sfuggito per un pelo alla deportazione,  era  scappato  dal ghetto di Varsavia vivendo  come un vagabondo fino a dieci,  e poi a quaranta  aveva perso l’adorata moglie, Sharon Tate, assassinata  incinta di otto mesi   dalla setta di Charles Manson a Cielo Drive, e  infine a ottanta continua ad essere perseguitato della giustizia per scandali sessuali di cui ha pagato pegno. È stato il confidente, il cortigiano, il compagno di gite a Solutré ed escursioni gastronomiche di François Mitterrand, il presidente socialista che nel secondo settennato l’ha voluto  ministro  senza portafogli,  delle Riforme prima,  della Comunicazione poi, come vice di Jack Lang, e infine degli Esteri, ma sotto schiaffo del perfido Roland Dumas che gli giocava contro. È stato il difensore di Liliane Bettencourt, la miliardaria triste proprietaria di L’Oréal, che per svagarsi regalava un miliardo al fotografo François Marie Banier, suo intrattenitore e amico, suscitando la gelosia della figlia rapace, che alla fine per vendicarsi, quando la madre ha iniziato a dare di testa, ha fatto fuori il suo avvocato di fiducia. Ma Kiejman, che si considera un avvocato di sinistra, un fautore  dell’interesse generale e un militante dell’attendibilità delle prove e dell’accertamento della verità, ha accettato di assumere anche  la difesa dell’ex presidente gollista  Jacques Chirac, finito sul banco degli imputati  per la vecchia storia di corruzione e tangenti che risaliva ai tempi in cui era sindaco di Parigi.  Perché  per lui l’idea di assicurare la difesa di un individuo in uno stato di diritto prevale  sull’inclinazione politica, anche se non contempla la possibilità di estendersi  anche  agli assassini seriali, ai pedofili accusati di violenze sessuali,   per non parlare dei terroristi islamici che fanno strage di bambini ebrei come Mohamed Merah. 

 

Prima di essere un avvocato democratico e di sinistra, un garantista e un idealista, poco sensibile al richiamo del soldo, al punto da considerarlo addirittura “volgare”, e prodigarsi  per assistere gratis i clienti più bisognosi e talvolta anche i più famosi – col rischio però di venirne umiliato: è successo con Sarkozy, che per il divorzio ha scelto un altro studio, con Bernadette Chirac, che ha mostrato somma ingratitudine, e in vari altri casi minori – Kiejaman resta una figura leggendaria del Tout Paris. Dal secondo Dopoguerra all’inizio del Duemila è stato un dandy impenitente e dalla vita avventurosa, un accanito tombeur de femmes dal fascino disarmante, sempre pronto a corteggiare, sedurre, adulare,  anche a costo di prendersi  solenni tranvate da certe signore e  mettersi pure a raccontarlo in giro, col risultato di ingraziarsi i potenziali concorrenti, e intenerire le future prede. E’ stato un uomo generoso, versatile, arguto, divertente, imprendibile, infedele, disposto come pochi altri all’amore, all’amicizia, alla fedeltà, sia pure nelle forme paradossali del libertinismo assunto con determinazione e in piena coscienza. E soprattutto è stato, ed è,  un narcisista risolto, e felice di esserlo sino al punto da mettere a nudo senza vergogna, ora che  a novant’anni non può più camminare, non può nemmeno muoversi, forse   non può neanche più frequentare le signore, costretto com’è a passare le giornate chiuso in casa, inchiodato a  letto in preda alla malinconia, o seduto alla finestra,  a guardare il sole che  fa capolino, gli uccellini che cantano sul davanzale, i rami degli alberi che perdono le foglie, mentre la vita  scivola via.  Sopravvive al tempo che incombe come una falce pronta a colpire,  rifugiandosi nei libri  e nei   ricordi.  E per questo ha scritto un libro a quattro mani  con una giornalista del Monde, (Georges Kiejman, Vanessa Schneider, “L’homme qui voulait être aimé”, Grasset) dove racconta la sua vita eccezionale, forse per riviverla, forse per accomiatarsene com’è giusto e  lasciare testimonianza di sé.

 

È un libro meraviglioso, pieno di irriverenza, di sassolini, anzi di macigni, che gli escono dalle scarpe, di notazioni sfolgoranti e citazioni memorabili. Kiejman, con l’aiuto della reporter nipote di un famoso psicanalista, spiattella senza vergogna le sue fragilità, rivela  le sue ambizioni, le sue ossessioni, i suoi fantasmi più segreti. Rievoca in prima persona la miseria nera vissuta da bambino, la fortuna pazzesca con cui, grazie alla madre,  si è salvato dallo sterminio nazista, durante l’occupazione tedesca. Racconta l’aiuto ricevuto da tanti benefattori, a cominciare dai suoi maestri di scuola, dai professori, dai compagni abbienti, con cui il sabato sera andava a ballare, ma non avendo un franco in tasca, restava in piedi a deambulare  tra un tavolino e l’altro, per non   dover consumare. Racconta la decisione che prese non si sa come di studiare Legge, forse per  profittare della parlantina, visto che la sua vocazione era diventare meccanico in un’azienda tessile. Racconta gli anni dell’università, da studente lavoratore che dopo i corsi e gli esami va a cucire pelli in una pellicceria, e poi l’inizio nella vita attiva, il ruolo da primo segretario della Conférence du Stage, dopo aver vinto il concorso di eloquenza che funge da propellente alla carriera forense,  e poi il caso e la necessità che segnano i primi successi, e poi la gloria mondana, gli amori, le amicizie, le passioni, la politica e il potere. 

 

Entriamo così in caleidoscopio di illusioni,  un vero romanzo del Novecento, dove la voglia di emergere e la spinta dell’ambizione si intrecciano di continuo all’ansia di una conferma, di un riconoscimento, al desiderio di una  legittimazione piena e perciò irraggiungibile. Prestandosi al genere del Mon coeur mis à nous, Kiejman ritorna sulle proprie tracce, ripercorre il suo passato, prendendo i tratti del protagonista di un film di Louis Malle. Scrive rapidamente, in poche frasi incisive, per condensare in tanti piccoli capitoli il fermo immagine di una vita. Ecco la stanza di pochi metri quadrati a Belleville, in rue de la Présentation, dove vive  con la madre dopo la guerra. Un lavandino in un angolo, in mezzo una tavola di legno, un letto e un minuscolo divano che la sera si apre per la madre: “Eravamo poverissimi. Eppure non mi lamentavo, perché non avevo punti di riferimento. Trovavo normale, la domenica sera, bere una tazza di caffè e mangiare delle sardine sott’olio”. La madre non lavorava, non si sapeva di cosa vivesse, non sapeva fare niente, tranne un po’ di cucito e un po’ di cucina. Eppure era sempre vestita in modo impeccabile, sempre elegante. Per quanto fortemente anaffettiva, e alla fine pazza paranoica e solissima, era pronta a tutto per quell’unico figlio che le era rimasto. Non gli faceva mancare nulla, giocattoli, vestiti, cibo. Un giorno che il figlio si presenta a casa con  un  compagno, lo attira in un angoletto per dargli  di nascosto e solo a lui la spremuta d’arancia e qualche fettina di banana.

 

Era completamente analfabeta. Parlava un francese approssimativo, colorato di yiddish, ma non sapeva  né leggere né   scrivere, ed era refrattaria a imparare la grammatica. Nel 1931  era fuggita dalla campagna nei dintorni di Varsavia col marito, di professione mercante di patate, e le due figlie superstiti per approdare a Parigi, dove l’anno dopo era nato l’ultimogenito Georges. Il marito l’aveva abbandonata per una donna più giovane, e a detta del figlio, ben più affascinante di lei. E madame Kiejman ricorreva a uno scrivano di strada,  per chiedere al legittimo sposo dell’amante del marito di intervenire perché si lasciassero e potesse tornare a casa,  “perché in fondo era un brav’uomo”. E pensare che proprio alla separazione dei genitori Kiejman deve la sua salvezza. 

 

Scoppiata la guerra, il padre si arruola nell’esercito francese, e la famiglia finisce  per ordine del governo a Drulon,  un villaggio del Berry nei pressi di Loye-sur-Arnon, dove si sistema in una soffitta senza acqua né luce. Smobilitato il padre per ragioni di salute, la madre vende le sue scarabattole e cerca di ripartire coi figli per Parigi, ma  viene bloccata   da un soldato tedesco che la costringe a fare marcia indietro. Miracolo, o estrema ratio di un militare avvertito della sorte che li avrebbe aspettati? Non si sa. Come che sia, Kiejman bambino si ritrova per alcuni mesi insieme col padre e la sua amante a Tolosa e poi in Alta Garonna. Serve messa come chierichetto e viene spedito in collegio dai gesuiti a Gimont, nella regione del Gers, finché all’inizio del 1942 non torna dalla madre fra i contadini del Berry, vivendo anche lui di espedienti, come tirare la carretta dell’asinello, andare a prendere l’acqua dal pozzo. Intanto però frequenta le elementari alla scuola pubblica, diventa il primo della classe e grazie al preside passa  in prima media come interno a Saint-Amand-Montrond. La madre, rimasta a Loye-sur-Arnon, schiva l’arresto, negando di essere ebrea, e  alla vigilia dello sbarco in Normandia, premonizione divina, riesce a far tornare a casa il figlio sul furgone del postino, salvandolo da un’ultima retata nazista, mentre il padre viene deportato e muore nel marzo 1943 appena arriva a Auschwitz.

 

“Non passa giorno che  non pensi a lui” confessa Kiejman ormai novantenne. E questo padre sconosciuto e gaudente aleggia come un fantasma nel ritratto dei tanti padri putativi che hanno segnato la sua vita, a cominciare da René Moatti, l’avvocato gollista che lo prende nel suo studio premettendogli l’iscrizione all’Ordine degli avvocati, conquistato dalla sicumera di quel ragazzo che si sente come l’Eletto di Thomas Mann, uno che all’Ordine  non conosce nessuno, ma sa tutto senza mai averci messo piede. E poi Mendes France, che lo prende per la campagna elettorale e lo mette a dormire nella stanza degli ospiti con l’altro suo assistente, e infine Mitterrand che vince dopo decenni una tenace diffidenza, e si lascia conquistare dal riserbo di Laure: “Sei l’unica moglie a Parigi che alle otto di sera non sappia dove sia finito il  marito e non se ne preoccupa”. 

 

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