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il rétro trionfa 

Non chiamatelo vecchio. Il vintage è l'intensità della vita

Gaia Manzini

È la memoria del nostro passato, il piacere della rievocazione, la nostalgia di un oggetto o di un odore. Ed è diffuso in questa nostra epoca più che in altre. Riviviamo in intramontabili oggetti l’entusiasmo della giovinezza

Mi fermo ogni giorno davanti a una vetrina della via dove vivo. C’è un negozio sull’angolo. Non ci vedo mai nessuno dentro, ma molti – come me – si fermano a guardare. È un negozio di modernariato e in vetrina, disposti con gusto, ci sono dei televisori anni Sessanta di plastica arancione, qualche vinile e poi loro: i telefoni con la cornetta e il disco dei numeri. I miei genitori ne avevano uno grigio: era appoggiato su un mobile in anticamera. Componevo il numero della mia migliore amica ogni pomeriggio, prima di iniziare a studiare. La mano che girava sembrava un derviscio rotante. Mi sedevo per terra con la cornetta incastrata sotto il mento per quasi un’ora, o forse di più, fin quando non arrivavano le urla di mia madre e non avevo l’orecchio in fiamme. Cosa vedono gli altri che, come me, si fermano ogni volta davanti a quella stessa vetrina, accontentandosi di guardare? Si ritagliano il piccolo piacere di una rievocazione. Il vintage è un sentimento, diffuso in questa nostra epoca più che in altre. E’ quello che racconta, con la precisione dell’instancabile interprete della contemporaneità, Sabina Minardi nel suo Grande libro del vintage, uscito per Il Saggiatore. 

 

Macchine, vestiti, gioielli, elettrodomestici, biciclette, motorini… un oggetto non è vecchio ma vintage quando si è imposto con una qualità che gli ha concesso di durare nel tempo, quando è stato così innovativo, originale, inimitabile, da perdurare nella nostra memoria. Da segnare un passaggio decisivo nell’immaginario collettivo. Mio marito e io abbiamo a lungo discusso se concedere a nostra figlia di vedere Stranger Things, la serie in onda su Netflix. Temevamo che fosse troppo cupa, o spaventevole. Abbiamo deciso di vederlo tutti insieme e la visione – almeno per noi adulti – nonostante le atmosfere da fantahorror, non solo non è risultata spaventevole, ma allo stesso tempo ci è parsa rassicurante. La serie, ideata da Matt e Ross Duffer, è ambientata a partire dal novembre del 1983 nella cittadina fittizia di Hawkins, Indiana. Il cuore della storia è la misteriosa scomparsa di un ragazzo, Will, e l’arrivo di una preadolescente dai poteri soprannaturali: Undici (interpretata da Millie Bobby Brown). Si raccontano gli esperimenti di un laboratorio segreto, l’Hawkins National Laboratory; si racconta una dimensione parallela al mondo conosciuto, il Sottosopra, dove vivono mostri e creature spaventose,  che appare come la grande metafora del mondo adulto e della fine dell’infanzia che attende da lì a poco tutti i protagonisti. Non mancano scene di vera tensione, eppure si ha costantemente la sensazione di essersi accomodati in un’ideale comfort zone. E questo perché ogni dettaglio, sonoro o visivo, ha una risonanza: è il richiamo a qualcosa che conosciamo e fa parte del nostro passato. Gli orologi Casio, i binocoli e le macchine reflex, i registratori di cassa, gli elettrodomestici Sharp, Adidas e Reebok ai piedi dei ragazzi. C’è Dungeons & Dragons, gioco da tavolo fantasy del 1974. Ci sono rimandi a Blade Runner e Alien. Il gruppo di amici fedeli e sgangherati richiama I Goonies; la notte e le biciclette ci riportano a  E.T. (1982). E poi ancora, Stand by me – Ricordo di un’estate (1986), La cosa (1982) e Nightmare (1984). 

 

Riconoscere è riconoscersi, sentirsi dentro a un flusso temporale che non si è interrotto. Il vintage è un rassicurante antidoto al presente. E così ci sono signore che fanno la maglia nelle sale d’attesa; aziende che trovano il prodotto vincente riesumando la vecchia borraccia perfettamente rispettosa dell’ambiente; ragazzi che si scambiano sui social oggetti di artigianato ritrovati in casa. “Ed è in questo movimento, cerchi che si allargano e propagano la tendenza, che uomini e cose si riconoscono, e si incrociano magicamente. Nel segno della nostalgia”, scrive Minardi. Ritroviamo negli oggetti vintage e nella loro eco l’intensità della vita; ci rivediamo con l’entusiasmo della giovinezza, li usiamo come antitesi alla nuova vita assorbita tutta dentro a un telefonino nel quale sono confluiti album fotografici, segreterie telefoniche, rubriche, quaderni sui quali prendere appunti, libri, radio e televisione, mappe stradali…

 

Edward Bach, medico e scrittore britannico, ricordato per i suoi rimedi terapeutici e pseudoscientifici, tra il 1928 e il 1930, decise di approfondire le sue intuizioni e cominciò a studiare il potere curativo dei fiori. I fiori erano per lui la strada maestra per conquistare l’armonia tra anima e corpo. Uno dei suoi rimedi più famosi, catalogato come numero 1, era la Lonicera Caprifolium, il caprifoglio. Per Bach rappresentava tutti coloro che vivono voltandosi di continuo verso il passato, tutti quelli che rimpiangono un tempo felice e si abbandonano ai ricordi. Per Bach questo tipo di persone non aveva alcuna possibilità di trovare una felicità nel presente, ma solo quella di riviverla retrospettivamente. E se così non fosse? E se un pizzico di nostalgia fosse un propulsore necessario per guardare avanti? Mi sembra questo il centro del libro. Il ragionamento necessario da condividere. 

 

Tornano Friends, Star Wars, il citazionismo di Tarantino; tornano i drive-in; tornano i colouring books per adulti; tornano le pastiglie Leone nella scatolina di cartone verde oliva, ancora col marchio originale voluto dal fondatore Giuseppe Dell’Era; le Crystal Ball; l’Acqua distillata alle Rose; la Brillantina Linetti. E poi ci sono anche le città vintage. Come Eskilstuna, una città della Svezia centro-orientale. Qui non si inventa, né si produce, nulla di nuovo. La città era cresciuta intorno alla sua acciaieria, ma con la chiusura della fabbrica era caduta in disgrazia. È stato dopo qualche anno che la città ha deciso di regalarsi una nuova storia, trasformandosi nella città più ecologica del mondo. Sì, certo: gli autobus alimentati a biogas, le centrali a energia termica per riscaldare le case, il sistema di riciclo dei rifiuti. Ma soprattutto il centro commerciale che dal 2015 vende solo abiti, oggetti, prodotti di ogni tipo, rigorosamente di seconda mano. Si chiama ReTuna, ed è interamente rifornito dagli abitanti della città. Si vendono solo cose usate: quello che per qualcuno è uno scarto per qualcun altro è scintilla di creatività.

 

Mi dico che vintage sono diventati anche certi comportamenti: chiamare il taxi al telefono, pagare in contanti, fissare nel vuoto durante un tragitto in metropolitana (dal momento che tutti non smettono un attimo di fissare lo schermo del loro cellulare); e poi ancora, leggere il giornale cartaceo, andare in rosticceria (perché farlo quando esistono i delivery?), scrivere biglietti a mano invece che mandare un whatsapp. Anche se forse persino i messaggi whatsapp stanno invecchiando precocemente: ora si mandano i vocali. I cambiamenti oggi sono talmente veloci che a volte neanche ce ne rendiamo conto. Il futuro è già dentro il presente, già in ogni nostro passo. La pandemia che ci ha costretto a fermarci, ha mostrato però che non conosciamo esattamente di che sostanza sia fatto questo futuro. “Lungo i mesi del primo lockdown e per tutto l’anno successivo abbiamo avuto nostalgia di come eravamo prima e di ciò che era di colpo andato perduto. Incapaci di immaginare il futuro, abbiamo rivolto ancora di più lo sguardo al passato per ancorare una contemporaneità sempre più complessa, sfuggente e piena di variabili e di incognite, a un mondo fatto di certezze: quelle alle quali, nel bene o nel male, siamo sopravvissuti”. E’ la retropia di cui parlava Zygmunt Bauman: utopie rovesciate, ovvero visioni situate in un passato non ancora morto, non ancora dimenticato, dunque ancora propulsore di senso.

 

Ma il passato rassicurante funziona davvero quando si mescola alla contemporaneità. Come ha capito Steven Guarnaccia, noto illustratore del New York Times e collaboratore del MoMA, autore di originali rivisitazioni di favole tradizionali  e di classici dell’infanzia. Nella sua versione dei Tre porcellini c’è l’esaltazione del mondo dell’architettura; Riccioli d’oro si fa portavoce della storia dell’interior design, Cenerentola celebra un secolo di calzature… Gli oggetti diventano presenze della nostra vita. Si addensa intorno a loro il tempo condiviso, il senso di una giornata, un frammento delle nostre emozioni. Esiste così anche un “vintage emotivo”. Torna la passione per le merendine, si ricostruisce la storia d’Italia a partire da profumi, dolcetti, creme spalmabili. Tegolino, girelle, saccottini, crostatine e le loro sorprese. E’ la rievocazione dell’infanzia negli anni Ottanta, il ritorno del rassicurante Mulino Bianco. Stesso discorso vale per i cartoni animati e per le sigle che ognuno di noi cantava a squarciagola, anche dopo, anche già ormai da adulti, in una specie di rivendicazione del passato. Cristina D’Avena è la voce inconfondibile di tutte le sigle dei cartoni animati anni Ottanta. La sigla dei Puffi ha vinto il disco d’oro. Quella di Kiss me Licia il disco di platino. Cristina D’Avena non si è mai dedicata ad altro ed è per questo incarnazione lei stessa di quel vintage emotivo di cui si parlava prima.

 

Di recente, sull’onda del revival, Cristina D’avena ha ideato autoironici spettacoli basati sulla sconfinata discografia dei cartoni animati, e dunque della memoria collettiva dell’infanzia. Le canzoni di un tempo venivano reinterpretate assieme alla band bolognese di rock demenziale Gem Boys. Torniamo di continuo a quando eravamo bambini. Possiamo farlo collettivamente e in modo efficace proprio grazie a internet e ai suoi dispositivi di memoria aggiuntivi: tutti i social che ripropongono immagini, cartelloni, musiche del passato; che rafforzano la tendenza del vintage. Che confermano lo stretto legame dell’oggi con ciò che ci siamo lasciati alle spalle. Che legano il nostro presente in un flusso di continuità con le nostre storie familiari, sociali, di comunità.

 

Katrina Holte, trentenne dell’Oregon, racconta sé stessa sui social ogni giorno. Si dipinge come una casalinga anni Cinquanta, non solo nel look, ma nella coerenza a certi valori e abitudini. Cuce, stira, cucina secondo ricette d’epoca, organizza tè con le amiche. Se ne infischia di decenni di emancipazione femminile. Davanti a una deludente contemporaneità, meglio vivere nel passato, con i capelli arricciati e il rossetto perfettamente steso sulle labbra. Certo c’è qualcosa d’inquietante in questa inversione dello sguardo di centottanta gradi. Eppure riscuote successo, le sue creazioni di sartoria vengono vendute online, insieme a una filosofia di vita.  Questo non dice che il mondo sia popolato da aspiranti casalinghe, ma che quello che in Katrina è iperbolico diventa spunto per altri, conferma di un movimento nostalgico del nostro animo che cerca di continuo occasioni di rispecchiamento.

 

L’odore dei libri di biblioteca, il profumo di un potpourri rimasto in una vecchia casa, l’aroma di una bevanda, di una scatola in soffitta, di una vecchia valigia, dell’acqua e zucchero preparato da una nonna premurosa, di una spezia sfregata tra le mani… il passato si costruisce anche con le madeleine olfattive. Cecilia Bembibre persegue il sogno di catalogarli, di farne una biblioteca di odori del passato, profumi antichi, recuperati artificialmente. Odori che ora non ci sono più, ma che ci connettono alle nostre storie personali e collettive. Che impatto potrebbe avere sulle nostre azioni e reazioni, una potente rievocazione olfattiva? Mi sembra un’operazione affascinante, potentemente letteraria.

 

Nel suo lungo viaggio, Minardi ci indica quanto il vintage sia contemporaneo. Una necessità del vivere in questo tempo veloce, complesso, contraddittorio. “E se il vintage così abbondantemente in circolazione nella società fosse proprio questo: non una fuga dal presente, in un nostalgico rifugio all’indietro di fronte a un paesaggio stravolto e misterioso, ma la strenua resistenza di un tempo che, di fronte a un ticchettio che cambia e che introduce a un nuovo inizio, si rivela un decisivo alleato comune? Un tempo che reclama complicità con ciò che abbiamo amato, che ci ha trasformati, che è espressione di benessere, di pace, di memoria condivisa, di spirito di comunità?”. Recuperiamo il tempo andato in tanti modi diversi. Sensoriali, razionali, emotivi. Per proiettarci nel futuro non possiamo che riscrivere di continuo il nostro passato, con dettagli, oggetti, suggestioni: tutti strumenti necessari a ogni narratore che si rispetti.

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