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Il foglio della moda

La moda in cerca di eterno: il vintage cresce anche in Italia

Fabiana Giacomotti

La ricerca esclusiva di Kearney. Chi lo compra non è il giovane ambientalista della narrativa che piace tanto, ma ultra-quarantenni a caccia dell’affare per vestire griffato. Analisi su un mercato in rilancio. Con molte sorprese negative dagli Usa

Al “Love brings love show” organizzato dalla AZFactory che due sere fa celebrava la memoria del suo fondatore Alber Elbaz con quarantacinque straordinari abiti-omaggio di altrettanti designer di fama mondiale, si è parlato molto di un certo abito Lanvin sconosciuto. Un abito couture, disegnato per la collezione inverno 2012 Les Dix ans  che portava ancora la firma del designer israeliano scomparso a causa delle conseguenze del Covid lo scorso aprile (era fragile, venne infettato fra la prima e la seconda dose). Come noto nell’ambiente, e come lo stesso Elbaz commentò proprio al Foglio della Moda, Lanvin, che aveva diretto per quasi quindici anni, era rimasto il grande cruccio e il grande choc della sua vita. Essere costretto a lasciarla alla metà del decennio scorso, per ragioni davvero poco comprensibili visto il grande successo, era stata un’esperienza mai davvero superata.

 

L’abito in questione non è comparso l’altra sera sulla passerella spoglia del Carreau du Temple – solo il grande salone buio e un occhio di bue seguivano il movimento delle modelle, alla fine una cascata di petali di rose – ma è stato protagonista di un breve film girato lo scorso maggio a Venezia. Diretto da Alessandro Possati con la partecipazione della modella e pianista Zhanna Emelianova, il film non è ancora uscito, così come l’abito non si è ancora visto. Per gli standard comuni di molti, troppi anni di consumismo sfrenato, questo abito è sì avvolto dall’aura del mito, ma è anche irrimediabilmente “vecchio”. Anzi, datato, aggettivo che il sistema aborre. La moda è una forma di bruttezza così intollerabile che siamo costretti a cambiarla ogni sei mesi, come diceva quel battutista di Oscar Wilde negli anni della crescita sfrenata dell’economia di consumo, e per quasi un secolo tantissimi hanno pensato così. Il sistema del fast fashion aveva accelerato la scadenza di un vestito: da sei mesi a due settimane. Materia di scarsa qualità intrinseca, priva non solo di una seconda vita, ma perfino di una prima esistenza abbastanza lunga. Da qualche stagione, la spinta verso la sostenibilità della moda e la risignificazione del valore dell’abito ad opera di molti brand, sta portando all’attenzione di una fascia sempre più vasta di pubblico l’opportunità anche morale ed etica di dare alla produzione di moda una vita più lunga e l’opportunità di un passaggio generazionale, magari non con gli stessi codici e lo stesso significato, ma con modalità non troppo diverse da quelle del Medio Evo.

 

Buy less, choose well, make it last: compra meno, scegli meglio, fallo durare, come ci ha ripetuto la scorsa domenica Vivienne Westwood nel backstage del suo show, a Parigi, che è anche la base di ricerca su cui ha lavorato Kearney per la prima grande ricerca mondiale sul mercato del vintage, che Il Foglio della Moda presenta in anteprima in queste pagine e le cui risultanze per l’Italia sono state condotte e prodotte in esclusiva. Ne esce un quadro molto variegato, che vede il nostro Paese agli ultimi posti nella coscienza etica, ma anche decisamente interessato all’“affare” del second hand o del capo invenduto di magazzino, di firma e qualità importante. Resta da capire come mai la narrativa dei brand racconti da anni di giovanissimi più attenti al consumo etico rispetto ai boomer, soprattutto fra le fasce più affluenti del mercato, quando poi l’evidenza dei dati elaborati da Kearney racconti l’esatto contrario, e cioè che chi compra vintage è attento soprattutto al prezzo, cerca l’affare, è perlopiù donna e ha oltre quarant’anni, ma la partita che si sta giocando ci sembra abbastanza rilevante perché al momento ci si possa accontentare di questi primi dati e sperare che i collezionisti maturi di vintage, di capi di seconda mano e di invenduti trasmettano la propria sensibilità alla prole. Per l’industria della moda, la ri-valorizzazione del processo di scelta e acquisto degli abiti si basa su ragioni economiche importanti (dai meri costi di magazzino e smaltimento alla necessità di dare valore duraturo a capi che talvolta costano decine di migliaia di euro), ma anche etiche: essere tacciati di soffocare e inquinare il mondo non è un punto a favore per chi fa della bellezza la propria reason why.

 

Nascono da questi punti incontrovertibili il progetto Vault di Gucci, che rimette in circolo su e-commerce i propri abiti di passate stagioni o storici, ricondizionati e personalizzati, e l’iniziativa internazionale diffusa Valentino Vintage di cui l’amministratore delegato Jacopo Venturini parla per la prima volta a pagina 3 di questo numero del Foglio. La moda circolare, in estrema sintesi, questo è: il contrario dell’usa e getta, la preservazione amorevole delle proprie scelte di acquisto. È un fenomeno che ha centinaia di anni e che affonda le proprie radici in Italia e in particolare nella Toscana, nell’Emilia e nelle Marche dei Comuni e delle signorie solidali e attente al bene comune, ma che oggi si è evoluta secondo principi e motivazioni del tutto nuove e in cui rientrano, come osserva la regional director Italy di McArthurGlen, Donatella Doppio, motivazioni al tempo stesso individualistiche e sostenibili: “L’unicità sta tornando ad essere una tendenza”, dice. La caccia al pezzo unico, all’invenduto della stagione che si era tanto apprezzata, al rifiuto dell’omologazione, è alla base dello stesso modello di business della multinazionale che Doppio guida nel nostro Paese; nell’ultimo anno, oltre ad aver rafforzato l’obiettivo zero waste nella raccolta differenziata, nel Designer Outlet di Noventa di Piave è stato anche promosso un progetto di upcycling con una collezione inedita di cento borse uniche e numerate, create dalla designer veneziana Carla Plessi con tessuti, cuoio e pellami di (pur preziosa) giacenza, create dalle ospiti della Casa Famiglia San Pio X di Venezia, fondata ai primi del Novecento per offrire una nuova chance economica e sociale a mamme in difficoltà, alle quali il ricavato è tornato per interno (fra l’altro: qualcuna delle borsine è ancora disponibile, in caso).

 

“La sensibilità per il riuso e il riciclo”, osserva la manager, “non può essere imposta, ma suggerita e insegnata, un’azione dopo l’altra. Ci vorrà tempo”. È quanto racconta anche la ricerca, condotta poco prima e poco dopo l’estate in quattro paesi – Usa, Germania, Francia e Italia – su una base di ricerca rilevante: 3mila casi per ogni nazione considerata, 1500 in Italia, tutti consultati online e rappresentativi di una fascia di età compresa fra i diciotto e gli oltre cinquantacinque anni di età. Per il nostro Paese, il Foglio della Moda ha richiesto anche una differenziazione per zona geografica. Una delle tante narrative nazionali ritiene infatti, e grazie alla ricerca di Kearney si è scoperto quanto a sproposito, che gli acquirenti di vintage e moda recycled-upcycled si trovino perlopiù al nord e siano giovani affluenti, eco-consapevoli. È proprio il contrario: sono di mezza età, vivono perlopiù al sud dove fra l’altro vige ancora il culto del passaggio generazionale di beni preziosi, sono nella maggioranza donne e cercano il second hand per ragioni economiche. Ma in generale, nel nostro paese manca una “clear view” su che cosa sia il second hand e come vada apprezzato, valutato, scelto. Accidenti: anni di storytelling da buttare nel cestino. “Nel centro sud la ricerca dell’affare è la motivazione prevalente”, osserva il partner di Kerney Luca Rossi, curatore della ricerca insieme con Dario Minutella, principal della società internazionale di analisi e consulenza, da qualche tempo molto attiva nel sistema della moda.

 

“La ragione ambientale” aggiungono, “non è comunque di certo quella prevalente in Italia”, a differenza di quanto accade in altri paesi, e principalmente in Francia, dove l’attenzione alla sostenibilità nell’acquisto del second hand tocca il 31 per cento dei rispondenti, contro il 22 per cento 20 per cento dell’Italia e un mero 5 per cento degli Usa. Donald Trump, come dire, ha colpito duro in un paese più che disposto ad ascoltarlo e che compra second hand in larga maggioranza (addirittura il 54 per cento) per ragioni economiche. La scelta di comprare vintage per sfoggiare il capo unico è in tutta evidenza una scelta sofisticata degli stessi che potrebbero permettersi di comprare Hermès a prezzo pieno, i populisti direbbero una scelta “radical chic”, da parte di gente che sfoggia con orgoglio anche il gioiello della nonna, non mangia fast food e si dichiara eco-consapevole. In Italia esiste anche un fattore socio-culturale che influenza in negativo l’acquisto second hand, ed è il suo benessere relativamente recente (lo diciamo spesso, settant’anni di ricchezza diffusa sono pochi per mutare stabilmente le abitudini e i comportamenti): ci piace ancora comprare nuovo, “chello ca costa e’ cchiù” come cantava Renato Carosone.

 

La maggioranza dei ragazzini italiani, per esempio, continua ad amare la novità addirittura all’80 per cento, a differenza dei loro coetanei tedeschi e americani che invece tentano la strada del second hand rispettivamente per il 55 e il 52 per cento. La Germania, sempre a dispetto della narrativa italiana che, soprattutto durante i lockdown, ha enfatizzato il ritorno al commercio di prossimità, è invece la nazione dove l’aiuto ai business locali e al no profit sia una motivazione rilevante nella decisione di comprare second hand. E d’altronde, come osservava qualche settimana fa il presidente della Camera Nazionale della Moda, Carlo Capasa, l’Italia è agli ultimi posti in Europa anche nel riuso di abiti smessi: 21 per cento contro il 75 per cento della Germania. Con Rossi e Minutella si è ipotizzato che un’altra delle motivazioni della nostra resistenza culturale nei riguardi del vintage sia dettata dalla nostra primazia nella produzione di moda nuova. Le sfilate appena terminate a Parigi erano state realizzate in buona sostanza tutte nei laboratori italiani. E’ una spiegazione possibile, di certo non la più confortante se, come il sistema della moda continua a dirsi, bisogna trovare presto un nuovo equilibrio fra produzione e consumo.

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