La provinciale reticenza dell'università italiana a lavorare in inglese

Antonio Gurrado

L'anglofonia dei bandi redatti dal ministero dell'Università ha innescato polemiche sull'utilizzo della lingua inglese nell'ambito ricerca. Ma i vantaggi sono minori delle controindicazioni e usarla più spesso aiuterebbe gli atenei a uscire da una cappa di provincialismo durata troppo a lungo

Come le maree, periodicamente ritorna la polemica sull’opportunità di svolgere ricerca accademica in inglese. Stavolta ne è causa il ragguardevole stanziamento del Fondo italiano per la Scienza (Fis), un nuovo bando del ministero dell’Università che quest’anno contempla venti milioni per i progetti iniziali e trenta per i progetti avanzati. O forse dovrei scrivere più accuratamente “venti per gli starting grant e trenta per gli advanced grant”, dato che vengono chiamati così nel bando. Quest’anglofonia ha destato qualche perplessità; Paolo Di Stefano ha fatto notare sul Corriere che il bando trabocca di principal investigator e host institutions, e che inglesi sono i settori disciplinari in cui è suddiviso. Affronto apicale, la domanda di partecipazione va fatta in inglese e il colloquio di selezione pure.


La domanda sottesa è se sia sensato che un ricercatore italiano, che magari si occupa di letteratura italiana, partecipi al bando di un fondo italiano con un progetto su un autore italiano, ad esempio Boccaccio, lavorandoci in inglese. Controintuitiva quantunque, la risposta è sì. Anzitutto non regge la contrapposizione un po’ sciovinistica fra la nostra lingua e l’altrui, poiché le conoscenze si accumulano e non si cancellano; non ho dati statistici al riguardo ma sono piuttosto certo che nessuno studioso di Boccaccio uso a pubblicare in inglese abbia nel frattempo dimenticato l’italiano. Né l’italiano di Boccaccio può trarne alcun danno, restando immutato e svettante al centro di una produzione critica anglofona che lo citerebbe comunque in versione originale.


Se le controindicazioni sono molto limitate, i vantaggi sono numerosi. Anzitutto il bando Fis è rivolto a studiosi di tutte le nazionalità (i famosi principal investigator, cioè i coordinatori del progetto di ricerca): la lingua inglese è precondizione per attrarre ricercatori stranieri, e potrebbe garantirci qualche bel progetto su Boccaccio che arrivi da oltralpe, da oltremanica, da oltreoceano insieme a un po’ d’aria fresca. Lo studio di un autore non è monopolio della sua nazione; se nell’università italiana si crede questo, allora bisognerebbe chiudere le facoltà di Lingue e Letterature straniere. Inoltre potrebbe essere occasione di liberarsi dall’asfissia a cui l’università italiana si è condannata per decenni, con la permeabilità internazionale ridotta a un continuo salasso di cervelli in uscita a fronte di un numero di ingressi dall’estero incomparabilmente inferiore, quando invece sarebbe bello che le nostre università potessero annoverare nel corpo docente i grandi specialisti stranieri di letteratura italiana.


Al riguardo, non va sottovalutato un altro fattore. La selezione in inglese introduce tacitamente una scrematura – valida soprattutto per gli starting grant, rivolti ai giovani che hanno finito il dottorato massimo dieci anni prima – fra i ricercatori che hanno avuto esperienza all’estero, o almeno scambi e contatti con istituzioni straniere, e quelli che invece sono stati abituati a crescere solo all’ombra della propria università. Siamo sicuri che uno studioso di Boccaccio sia più affidabile se non ha mai parlato di lui per venti minuti in inglese durante un convegno internazionale? 


Certo, resta il problema della lingua. Non di rado l’inglese dei progetti di ricerca finisce prigioniero delle convolute spire delle perifrasi accademiche nostrane; talora è approssimativo, talaltra è un volenteroso calco della sintassi italiana, a volte sconfina nella geniale creatività (l’ho vista coi miei occhi) del luminare che si è presentato a un collega inglese dicendosi contento to make your knowledge o del cattedratico che, a un congresso mondiale, ritrovandosi a corto di parole anglofone s’è messo a gesticolare dinanzi a una platea subitaneamente atterrita. La questione non è se la selezione per un bando debba avvenire in inglese, ma perché nella comunità accademica italiana lavorare in inglese non sia ancora diventato naturale per tutti, anziché foriero di polemiche o patemi.

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