Un'aula del Politecnico di Milano in tempo di pandemia (foto LaPresse) 

Università bocciata

Nessun ateneo italiano tra i primi cento al mondo

Antonio Gurrado

L'Italia è l'unica nazione del G8 a non averne. Il rettore del Politecnico di Milano indica la "lenta internazionalizzazione nelle città, nelle aziende, nelle scuole". E Origlia, Forum della meritocrazia, chiede un balzo di consapevolezza

L’Italia è l’unica nazione del G8 a non avere nessuna università fra le prime cento al mondo. Scorrendo la classifica pubblicata da QS balza all’occhio che la Russia ne ha una, il Canada e la Germania tre, la Francia quattro, il Giappone cinque, il Regno Unito diciassette (di cui quattro nella top 10), gli Stati Uniti ventotto di cui due sul podio. La prima italiana è il Politecnico di Milano, centoquarantaduesima. Ferruccio Resta, rettore dell’ateneo, spiega al Foglio che questo ritardo accade per “motivi culturali e strutturali. Il nostro paese soffre di una più lenta internazionalizzazione nelle città, nelle aziende, nelle scuole, nella conoscenza della lingua. In questi ranking viene misurata anche la percentuale di studenti e docenti esteri e, quanto ad attrattività internazionale, stiamo ancora rincorrendo: quando il Politecnico aveva deciso di passare alla lingua inglese nelle lauree magistrali, in Italia è seguita una riflessione enorme, arrivata nei tribunali, per sancire che ciò marginalizzava la lingua italiana. Ma evidentemente è impossibile richiamare qui studenti e docenti internazionali senza dare loro possibilità di comunicazione”.

“Dal punto di vista strutturale”, continua, “ci penalizza il rapporto numerico tra studenti e docenti, misura indiretta della qualità didattica. In Italia è sopra 20 con una media europea di 15. Abbiamo pochi docenti anche a causa del blocco del turnover fatto nel 2008 su tutta la pubblica amministrazione, non distinguendo i comparti: i docenti sono stati visti come spesa e non come strumento di qualità per formazione e ricerca. Inoltre abbiamo grandi atenei: il Politecnico ha quarantacinquemila iscritti, il doppio dell’ETH di Zurigo, la migliore scuola tecnica nell’Europa continentale. In Italia i fondi di finanziamento sono proporzionali al numero degli studenti e ne incentivano l’aumento senza una visione di sistema”. 

A questi aspetti si aggiunge un problema di produttività, aggiunge Maria Cristina Origlia, presidente del Forum della meritocrazia: “Gli indicatori dei ranking hanno a che fare con la qualità e la quantità della ricerca, con citazioni che garantiscano visibilità internazionale o riconoscimenti come i Premi Nobel. Dalle analisi del Forum emerge che le nostre università sono più deboli sotto questo aspetto, non nella qualità dell’insegnamento. Spesso lo si deve all’assenza di risorse sufficienti a impostare un lavoro finalizzato a tali risultati. Va messo in discussione il modello di business delle nostre università, che non possono affiancare ai soldi pubblici finanziamenti privati come invece le università in cima alle classifiche”.

Troppi studenti

L’affollamento studentesco impedisce inoltre, continua Origlia, “di creare percorsi di eccellenza per gli studenti più talentuosi o che si impegnano di più: abbiamo giustamente sempre difeso il diritto allo studio per tutti ma ciò non deve appiattire le potenzialità dei giovani. Di là da classifiche più o meno opinabili, i dati di fatto hanno un effetto concreto e tangibile sulla competitività del paese e sul contributo del sistema universitario alla transizione verso un’economia della conoscenza”.

Origlia è ottimista sul fatto che il Pnrr possa costituire una svolta, ma chiede anche “un balzo di consapevolezza: dobbiamo accorgerci che in Italia la laurea ha perso molto valore. Abbiamo un numero bassissimo di laureati e laureati mal retribuiti nonostante ottimi percorsi accademici; l’ascensore sociale è bloccato da una ventina d’anni. L’altra presa di coscienza deve riguardare il fatto che le università sono ancora in parte prigioniere di una mentalità nepotista, che ostacola la formazione di capitale umano d’eccellenza. Ci vogliono meccanismi di riconoscimento e incentivazione per i migliori, per formare classi dirigenti che in futuro portino beneficio a tutto il paese”.

Per Resta è necessario un passo ulteriore: “Dobbiamo decidere se ci interessa avere quattro o cinque (non una) università fra le prime cento o no”, conclude. “Se sì, si scelgono queste università e si fa un accordo quadro dando loro regole diverse: mobilità internazionale, con un docente su due reclutato all’esterno; numero minore di studenti senza danno finanziario; programmi di ricerca incardinati su alcuni laboratori unici, che richiamino le migliori menti internazionali. Se invece vogliamo un sistema universitario in cui tutti gareggino alle stesse regole, allora non dobbiamo più chiedere alle università come mai non si classifichino fra le prime cento. E’ un progetto che va intrapreso a livello centrale; è una decisione politica, non tecnica”.

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