(foto Ansa)

Come sarà l'università post Covid

Dopo la pandemia, gli atenei non saranno più come prima. E’ indispensabile ripensare insieme un nuovo modello universitario che dia più spazio al  ruolo dei docenti e meno alla burocrazia. Spunti

L’evento pandemico legato alla diffusione del Covid-19 ha sortito i suoi effetti sociali sulle istituzioni italiane già a partire da febbraio 2020. I mutamenti avvenuti sono stati numerosi, in primis a partire dalle nostre abitudini quotidiane e dalla percezione del reale. Le norme sul distanziamento fisico hanno cambiato il rapporto sia con i luoghi di cura (percepiti ora come possibili luoghi di contagio), sia con i propri legami affettivi (condizionati dal rischio di contagio e del nuovo modo di comunicare tramite gli strumenti digitali). Si è entrati d’improvviso in un tempo di incertezza ragionando come se fosse soltanto un tempo di transizione o semplicemente una condizione “eccezionale”. Nella sostanza molte abitudini sono state irrimediabilmente mutate, hanno subito processi di morfogenesi, molto probabilmente, stabili e duraturi, fino a nuovi continui e impercettibili mutamenti psicosociali.

Da questo contesto non è stata esente l’Università che, anche se spesso dimenticata dai grandi media, ha dovuto riorganizzarsi per poter continuare a erogare quei servizi che le competono. Allo stesso tempo, le nuove norme giuridiche hanno modificato gli abituali stili di vita, i processi di regolazione della vita accademica e comportato cambiamenti (spesso repentini) condotte e abitudini tra gli studenti. Si è così materializzata con maggiore forza la differente profilazione della popolazione studentesca: la didattica online ha favorito alcune categorie ma potrebbe aver distorto (se non addirittura eliminato) le classiche distinzioni sulle quali finora si erano costruiti gli insegnamenti, come ad esempio quella tra studenti frequentanti e studenti non frequentanti. Sappiamo che la frequenza online alle lezioni è spesso cresciuta tra gli studenti, anche in ragione dello stringente lockdown cui sono stati sottoposti, che ha consentito tempi più distesi e minori opportunità di svago e/o distrazione. In particolare, abbiamo potuto cogliere come il passaggio alla didattica a distanza sia stato segnato da problematiche legate all’erogazione dell’offerta formativa (digital divide), alla disponibilità di spazi per lo studio, alla condizione abitativa. Inoltre, questo mutamento ha comportato significative novità non solo nel campo della didattica, ma anche per quanto concerne la vita universitaria. 

 

La vita comunitaria degli studenti è stata svuotata del peso “fisico” e trasferita, laddove pre-esistente, a distanza. Ad esempio, gli studenti iscritti al primo anno accademico si sono ritrovati con un’esperienza in presenza monca e con una a distanza già in essere. La stessa vita associativa dell’università ha subìto una brusca interruzione, con le associazioni studentesche che hanno dovuto ripensare modalità e capacità critiche attraverso cui contribuire alla vita accademica. Inoltre, il circuito relazionale dello studente è stato ampiamente influenzato e per certi versi anche condizionato: per alcuni si è trattato di trasferire sul digitale le classiche modalità di incontro, per altri ha rappresentato una frattura significativa (si pensi soprattutto agli studenti con disabilità), per altri ancora si è dimostrato un rifugio attraverso cui eludere le relazioni. Questo passaggio dall’èra pre Covid a quella dell’emergenza, che in una prima fase è stato vissuto come un periodo-ponte, oggi viene interpretato in maniera ambivalente, anche se potremmo dire di trovarci già di fronte a una nuova epoca, in cui la digitalizzazione dell’esperienza assume i connotati di un’abitudine, diventando pratica quotidiana. In tal senso gli interrogativi che connettono nuove abitudini e vita universitaria sono numerosi. Tra poche settimane, si avvierà il nuovo anno accademico avvolto dalle incertezze e incalzato dalla medesima domanda dell’agosto 2020: torneremo in presenza o “staremo a casa”? Se l’anno scorso di questi tempi il diffondersi del virus sembrava anch’esso essersi preso un meritato riposo, in questa estate 2021 la pandemia sembra lavorare senza interruzione, riproponendo nuovamente il tema dell’apertura dei luoghi pubblici, quali scuole, uffici, università, trasporti ecc. 

 

Università: a settembre in presenza con il green pass

 

La principale differenza è che oggi abbiamo “18 mesi di esperienza alle spalle” per capire non solo cosa è successo e come eventualmente rispondere in termini sanitari, ma anche per ripensare “in modo nuovo” le abitudini e le modalità che sono state investite e, in taluni casi, travolte dalle misure di contenimento del Covid-19. Appare già abbastanza ovvio che l’utilizzo o meno del Green pass per l’acceso ai luoghi pubblici non rappresenterà un investimento sul futuro, non risponde pienamente a quello che, prima sottotraccia e ora con maggiore evidenza, è emerso in questi mesi. Si tratta di una misura temporanea, utile, ma non sufficiente per il futuro.

In ambito prettamente scolastico l’effetto Dad pare abbia portato a un calo delle conoscenze (dati Invalsi) e a un accrescimento della dispersione scolastica implicita o latente. Focalizzarsi esclusivamente sul problema delle modalità di didattica, però, appare miope di fronte ai grandi cambiamenti che si sono interfacciati in questi mesi. Cambiamenti che sono stati favoriti, accelerati e iper potenziati dalle misure di distanziamento fisico, ma qualcosa covava sotto la cenere già da prima, al buio di una normalità stanca che arrancava nell’adeguarsi ai repentini mutamenti e poco volenterosa di comprenderli, così come di comunicare con essi.
Per quanto riguarda l’Università, già da ora, studenti, docenti, corpo amministrativo si interrogano su quel che sarà, su come si aprirà l’anno accademico 2021/2022, se ci si potrà muovere in libertà oppure muniti di qualche particolare autorizzazione sanitaria/amministrativa, oppure se si tornerà a stare in casa dietro ad un pc. Sia l’una che l’altra ipotesi arruolano fervidi sostenitori. 

Proprio per questo continuare a ragionare in termini di aut aut (tra didattica a distanza e didattica in presenza) ci porterebbe in un vicolo cieco, costringendo l’istituzione accademica a dimenticare le buone ragioni di chi sta dall’altro lato rispetto alla scelta che verrebbe compiuta, ovvero gli studenti. Anche quest’anno chi scrive, insieme a Matteo Moscatelli (Università Cattolica di Milano), Daria Panebianco (Università di Padova), Livia Petti (Università del Molise) e Michele Bertani (Università di Verona), ha appena concluso una ricerca su scala nazionale, volta ad indagare l’esperienza di vita degli studenti universitari. Si tratta di una seconda indagine che, rispetto alla prima conclusa nel luglio 2020, ha evidenziato ancora con più forza quanto dentro al grande calderone che raccoglie gli studenti universitari, covino interessi, richieste e rivendicazioni che spaziano dal diritto allo studio al diritto alla socialità. Mondi diversi, divisi da aspettative, attese e interessi individuali difficilmente conciliabili con una risposta standardizzata.

 

Dopo 18 mesi di emergenza i trasporti sono ancora un problema per gli studenti

 

All’attuale questionario di ricerca, diffuso (tra marzo e maggio 2021) in collaborazione con le rappresentanze studentesche nazionali riunite nel Consiglio nazionale degli studenti universitari (Cnsu), hanno risposto oltre 23.000 studenti, sparsi sull’intero territorio nazionale.  Se da un lato, i problemi legati alle digital inequalities sembrano aver preso timidamente una direzione di diminuzione (la non disponibilità di un device a uso personale riguardava 10 studenti su 100 nel 2020 e ora il 4 per cento nel 2021), permangono ancora forti e significativi i problemi legati agli alloggi (il 10 per cento di studenti considera il proprio spazio abitativo non adeguato per seguire le lezioni da remoto, svolgere gli esami, disporre di un clima idoneo per lo studio) e ai trasporti (che rappresentano un impedimento significativo per poter accedere in maniera adeguata alla vita sociale accademica). Sono passati 18 mesi dall’inizio dell’emergenza eppure sui trasporti locali qualcosa ancora merita di essere fatto, per non lasciare che il diritto alla mobilità sia affidato ad una semplice e casuale “che ce la mandi buona!”.

Sul fronte delle relazioni sociali, in questo nuovo modo di vivere l’esperienza universitaria, le reti di supporto e il capitale sociale degli studenti hanno visto delle trasformazioni che sembrano procedere verso un progressivo indebolimento. Gli intervistati, infatti, pensando all’intensità delle relazioni con i colleghi durante l’emergenza sanitaria, esprimono la percezione di una contrazione della forza dei loro legami, diminuendo la frequenza dell’interazione sia offline che online. Questo ha avuto nel contempo significative ricadute anche sulla percezione del supporto ricevuto in termini di compagnia, aiuto simbolico e nello studio. 
Questo aspetto indagato può rilevarsi un elemento cruciale nel tracciamento del ruolo che la dimensione relazionale assume nel modo in cui si vive l’università, con conseguenze che possono manifestarsi anche nella performance dello studente.

Tra tutte, però, la questione che emerge come centrale riguarda la didattica su cui l’invito alla riflessione appare necessario per capire cosa stia covando sotto la voce: “preferenze per la didattica”. Agli studenti coinvolti nella ricerca è stato chiesto di esprimere una preferenza tra le possibili modalità didattiche degli atenei: il 47 per cento degli studenti preferirebbe le lezioni in presenza, il 19,6 per cento alcune lezioni in presenza e alcune a distanza, il 20,4 per cento lezioni a distanza registrate e l’altro 11 per cento lezioni online in diretta (in pratica la modalità maggiormente diffusa da marzo 2020). Se a grandi linee uno studente su due vorrebbe seguire le lezioni seduto nelle aule universitarie, nel dettaglio più della metà invece chiede che vengano promosse nuove modalità di erogazione delle lezioni accademiche. In alcuni atenei, questo secondo gruppo raggiunge il 60 per cento dei rispondenti: una maggioranza qualificata. 

 

L’aspetto maggiormente interessante è che 18 mila studenti (su 23 mila) si consideravano fino a febbraio 2020 “studente regolarmente frequentante”: cioè si alzavano al mattino e con lo zaino in spalla si recavano nei luoghi dell’accademia. Di quei 18 mila, solo 10.500 vorrebbero tornare in aula a seguire le lezioni, gli altri (per motivi personali, logistici, perché “poco interessati alle lezioni”) vorrebbero un altro modello (principalmente lezioni registrate o in diretta). Di fronte a questi dati sarebbe riduttivo leggere una semplice opposizione tra didattica in presenza e didattica a distanza, ma piuttosto emerge una forte polarizzazione nelle preferenze degli studenti. Non tanto riconducile alle modalità di erogazione della lezione, quanto piuttosto alle attese che ciascuno studente ha rispetto al proprio percorso di vita universitario, gli anni da investire, come investirli e quanto investire.

 

Per alcuni (tra i quali, ma non solo, gli studenti lavoratori, i lavoratori studenti, gli studenti “caregiver”) l’Università è un “luogo” in cui acquisire quelle competenze che oramai da tutti (la famosa Italia con pochi laureati, superata addirittura dalla Bulgaria e poco sopra l’ultima posizione occupata dalla Romania) vengono considerate come necessarie per ambire ad un posto di lavoro qualificato; per altri studenti l’Università è un luogo di formazione dell’identità personale, che consente di sperimentare le prime forme di autonomia e indipendenza rispetto alla famiglia d’origine – soprattutto per i fuori sede – e apre spazi di socializzare in un contesto “culturalmente vivo”.

Questa polarizzazione netta, si trova anche tra gli studenti delle università telematiche, che in parte chiedono maggiori attività in presenza, proprio per dare risposta a quel bisogno di socialità e di formazione dell’identità personale. Si è polarizzata la domanda a fronte di un isomorfismo dei vari atenei che in qualche modo hanno tentano e tuttora provano ad uscire dalla crisi attraverso processi di aggiustamento incrementale, offrendo un po’ di presenza (per chi può e nei limiti del possibile) e un po’ di distanza. Per il primo gruppo di studenti richiedere la didattica a distanza significa chiedere piena garanzia del proprio diritto allo studio, in un’epoca in cui l’allargamento della sfera dei diritti interessa vari ambiti; per gli altri significa tornare “a spendere” alcuni anni della propria vita in modo autentico, investendo sulla formazione della propria identità, su un progetto di vita che ruota attorno alla vita sociale accademica e che riguarda i vari ambiti della propria esistenza: affetti, relazioni, impegno civico. Sono due mondi diversi, su cui le differenti condizioni sociali, individuali, familiari, di contesto concorrono a definire la preferenza nei confronti di uno dei modelli possibili di vita accademica, pur non determinandola in toto. 

Di fronte a tale scenario (i cui contorni specifici verranno pubblicati in un volume, curato da Giuseppe Monteduro e Sara Nanetti, in uscita a inizio 2022) si tratta quindi di ripensare l’offerta accademica a distanza che non può semplicemente ridursi all’essere la trasposizione online dei contenuti presentati in aula, ma deve necessariamente riuscire a utilizzare gli strumenti della tecnologia, combinarli, per offrire il meglio della conoscenza e dell’accademia a tutti quegli studenti che in università non andranno. Si tratta di offrire un percorso “a distanza” altamente qualificato, in cui la connessione internet e i devices rappresentano non solo barriere da superare, ma anche opportunità da cogliere.

Allo stesso tempo, ed è una sfida al pari della prima se non addirittura più importante, si tratta, di ripensare l’Università in presenza, provando a rispondere a una serie di domande che emergono dall’esperienza di vita durante questo periodo “critico”.  Cosa qualifica l’andare in Università? Che rapporto c’è tra la biblioteca e l’aula? Quali opportunità si aprono nell’andare fisicamente in ateneo? Quali esperienze si possono fare? Quanto conta (ancora) la relazione docente-studente? Perché conta? Ed esiste davvero una reale possibilità per lo studente di intrattenersi in un dialogo con il proprio docente? Qualificare la presenza rappresenta una necessità indifferibile, semplicemente per non ridurre la presenza ad un obbligo amministrativo cui gli studenti devono sottostare. L’Università con l’obbligo ha poco a che fare, proprio perché dovrebbe continuare a essere il luogo delle libere coscienze e del libero sapere: si tratta di far diventare interessante la presenza (nel senso voluto da Heidegger dell’interesse), non in quanto obbligatoria o in quanto l’unica alternativa possibile.
Come detto prima, nella scelta degli studenti pesano le condizioni di contesto e quelle individuali: difficoltà nei trasporti, costi economici, distanza, relazioni di cura, cambi di vita ecc. Ma soltanto la chiarezza dell’offerta può fare sì che il superamento (ci si augura) di tutti quei fattori di impedimento possa rappresentare davvero una scintilla per tutti quegli studenti che vorrebbero tornare in presenza “ma non possono” o vorrebbero seguire da casa “ma si trovano ancora in condizioni inadeguate”.

La normalità pre Covid non torna più, è stata già spazzata via. Emerge ora il tempo presente, indispensabile per ripensare insieme un nuovo modello universitario, magari anche eliminando quell’eccessiva burocratizzazione della vita accademica che ha fortemente limitato il compito educativo dei docenti.
 
Giuseppe Monteduro 
Università del Molise

Sara Nanetti
Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
Davide Ruggieri 
Università di Bologna

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