Parigi privata anni '40. Dal dolore della guerra alla rinascita a ritmo jazz

Giulio Silvano

La città e i protagonisti, con una patina da biopic. Un libro

Se invece di scegliere i ruggenti anni Venti per il fantasioso viaggio temporale di Owen Wilson in “Midnight in Paris” Woody Allen si fosse concentrato sugli anni Quaranta, i toni della fotografia avrebbero dovuto perdere quel giallo vangoghiano. Sarebbero stati sostituiti da fumosi grigi bluastri, ombre tetre da film noir. Ci sarebbe stato troppo dolore generale perché si potesse costruire una commedia altrettanto efficace; anche se ci hanno provato in molti è difficile far ridere coi nazisti (tra le rare eccezioni le Sturmtruppen di Bonvi). Ma i Quaranta sono un decennio che non ha un unico feel, è una decade spezzata in due: prima occupazione, guerra e resistenza e poi liberazione, gollismo, piano Marshall e tentativo di una terza via tra Stati Uniti e Unione sovietica. Quando nel ’40 le svastiche vengono appese sui boulevard il curatore Jaujard ha già messo al sicuro la Gioconda e la Zattera della Medusa nei castelli della Loira e alcune vecchie glorie sono scappate nelle ville sul mare, come Dalì ad Aranche con Gala, Peggy Guggenheim, Man Ray e Duchamp. Chi resta in città viene a volte arrestato, come il prof di liceo Jean-Paul Sartre o il fotografo Cartier-Bresson, che finiscono in Germania. Altri – come Giacometti, Picasso e Simone de Beauvoir – vanno un po’ circospetti al Café de Flore a scambiarsi idee: i vecchi a raccontare e i giovani a imparare. C’è la paura di finire interrogati dalla Gestapo e penuria di benzina, in giro nemmeno una macchina. Albert Camus in bicicletta sfida il coprifuoco. 


Dopo la liberazione c’è una nuova generazione di expat in città, Saul Bellow e Arthur Koestler scalzano i Fitzgerald e Miles Davis sostituisce Cole Porter. Iscrizioni al Partito comunista & esistenzialismo. Emancipazione femminile & aborti. Dibattito sull’Indocina & paparazzi di fronte a casa di SartrePossiamo imparare tante piccole cose private dai racconti che Agnés Poirier fa in Rive Gauche (libro del 2018 appena uscito da noi per Einaudi e tradotto da A. Sirotti) su come vivevano gli intellò e i nuovi bohémien, sull’atmosfera dei café, degli alberghetti sgangherati lungo la Senna e dei jazz club. “In mancanza del burro i parigini si nutrivano sempre più di jazz”. Vediamo da vicino gli scambi e i conflitti ideologici e i ménage. La coppia Sartre–de Beauvoir sembra la vera protagonista di questo decennio.


La ricerca di Poirier è encomiabile. L’effetto però è quello del biopic cinematografico: quando Samuel Beckett torna in città apre la porta di casa “con un misto di timore e desiderio”, Édith Thomas è “una scrittrice emotiva e febbrile”. Raccontare ai lettori emozioni indimostrabili ha il rischio di trasformare le persone in personaggi (ma in fondo ci si sbanca a Hollywood con questo metodo, e da noi ci si vince lo Strega, vedi N., M. e compagnia). L’atteggiamento – conservatore, di sudditanza – è quello della meraviglia di fronte a questa lista di vip e “giganti”, la fama diventa un automatico riconoscimento di qualche qualità, come a una diretta di un royal wedding. Non ci si chiede come mai ci esaltiamo quando una città ha una tale potenza magnetica di creatività e pensiero come Parigi. A place Saint-Michel si incontrano Marlon Brando, James Baldwin, Juliette Gréco, Norman Mailer, Richard Wright, Cocteau e Braque. L’effetto che si crea è lo stesso di Jena nel primo ’800 con Fichte, Schelling, Hegel, o di Manhattan alla fine degli anni ’70 con Wharol, Lou Reed e Basquiat. Mi domando se qualcuno, sperando di finirci dentro, si aspetti che tra cinquant’anni venga scritto un libro sul Pigneto, su Capalbio o sul Bar Basso, e che poi i giovani provino una forma di Fomo retroattiva dicendo “eran tutti lì”. 

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