Letteratura al bivio
Se c’è ancora bisogno di storie, gli scrittori possono rinunciare a raccontarle? Tendenze d’oggi
Per far fare bella figura a Eugenio Montale, il suo cittadino più illustre, la pro loco di Monterosso ha stipendiato tutte le cicale della Liguria. Stravaccati su un’amaca a cento metri dalla villa del sommo poeta, si meriggia pallidi e assordati da “tremuli scricchi di cicale dai calvi picchi”, mentre tacciono, forse per insufficienza di fondi, gli “schiocchi di merli, frusci di serpi”. Si immagina il giovane poeta nell’estate del 1916 che sospende la sua siesta pomeridiana per estrarre il taccuino e vergare i suoi versi immortali. Chiedendosi: che cosa mai spinga l’uomo a tradurre in parole l’esperienza di esistere tra le cose che esistono, al modo dei gatti e degli alberi, invece di godersela e basta. Che cosa rende memorabili alcune parole tra milioni di altre? Chi si arrischierebbe, oggi, a scrivere “meriggiare”, che poi vuol dire poltrire d’estate, farsi una pennica, insomma? Qualcuno sta scrivendo, ora, i romanzi e le poesie che impareremo a memoria tra cent’anni oppure la letteratura sta consumando il suo tempo? Certo, come le cicale di Montale, in questo stesso momento, orde di scrittori invisibili stanno scrivendo i libri che leggeremo nei prossimi due.
Tra i suoi tanti mestieri, Federico Bona legge manoscritti per una grande casa editrice italiana. Come il protagonista del racconto Lettore di casa editrice di Giuseppe Pontiggia (a cui capita di rifiutare, non riconoscendolo, un manoscritto di Dostoevskij capitato per caso in cima alla sua pila di inediti), Bona valuta una media di quattrocento romanzi all’anno e gode quindi di un punto di osservazione privilegiato sulla produzione letteraria in corso. In un articolo intitolato “La responsabilità dell’incendio” pubblicato su IL, il mensile del Sole 24 ore, Bona individua tre tendenze principali, due in atto da anni, una più nuova. La prima è il diluvio di autofiction, – le narrazioni in prima persona in cui lo scrittore si reinventa come protagonista della propria storia – che in Italia dilaga da decenni, e che comprende libri bellissimi e libri bruttissimi, ma che riflette in generale il processo per cui l’autore precede sempre l’opera. La letteratura sembra seguire – gli scrittori sono esseri umani che vivono nel proprio tempo – lo stesso metodo del mercato e degli influencer: per vendere il messaggio, devi prima creare e vendere il brand.
Anche la seconda tendenza non è nuova. Scartabellando tra i manoscritti, Bona racconta di essersi imbattuto, più che in distopie sull’epidemia, in decine di romanzi storici ambientati per lo più nel ventennio fascista. Come già scritto in questo “spazio okkupato”, nell’impossibilità di immaginare il futuro, il passato diventa l’unico territorio dove indagare il presente. Più interessante e nuova la terza tendenza: il romanzo a frammenti, senza più trama. Anche in questo caso la novità è relativa: è almeno dai tempi dei surrealisti che la letteratura si affida al collage. Ma negli ultimi anni, questa tendenza si è rafforzata grazie a libri osannati dalla critica, e non ignorati dal pubblico, come Lincoln nel bardo di George Saunders, i romanzi di Rachel Cusk o 1947 di Elizabeth Åsbrink, bellissimo. “E’ come se lo scrittore”, scrive Bona, “derogasse a uno dei compiti di cui storicamente si è fatto carico – ricreare un ordine, benché fittizio – e si limitasse a presentare una serie di eventi rilevanti, un fiorire di scintille, delegando al lettore la costruzione del significato complessivo, e quindi la responsabilità dell’incendio”. Nell’impossibilità di costruire un senso organico della storia si lascia ai lettori il compito di ricomporre, eventualmente, una visione del mondo.
Quello che viene da aggiungere, rimanendo saldamente stravaccati in mezzo al casino prodotto dalle cicale di Monterosso, è che il frammento più che delegare al lettore la ricerca di un senso, distrugge la linearità del tempo e il rapporto causa-effetto su cui si basa la fisica newtoniana e su cui il romanzo classico è ancora abbarbicato. La narrazione per frammenti inizia ad adeguarsi, cioè, dopo un secolo, alla fisica non lineare e probabilistica del Novecento. Leggere frammenti, però, cambia profondamente la modalità classica del leggere: in termini di fruizione la lettura si fa intermittente, come quando scrolliamo distrattamente notizie e immagini sui social. Anche la scrittura cambia: diventa una specie di pesca a strascico nella speranza che nella rete rimanga impigliato qualcosa. E’ vero, per ritornare a Montale, che “la storia non si snoda come una catena di anelli ininterrotta… Lascia sottopassaggi, cripte, buche e nascondigli”. Ma è in questi nascondigli che si nasconde la domanda fondamentale: se possano esistere, cioè, storie non lineari: se di storie ci sia ancora bisogno e se gli scrittori possano rinunciare a raccontarle. E’ questa la vera decisione per la letteratura, mi sembra: rintanarsi nell’io e nel frammento lasciando a Netflix il compito (e il potere) di veicolare i miti condivisi su cui la cultura si fonda oppure lottare per continuare a essere l’arte attraverso cui le storie nascono e si propagano.
Antifascismo per definizione