Incontro di solitudini

Mariarosa Mancuso

Del romanzo di Valeria Parrella è meglio lasciar perdere il risvolto di copertina e la parata di recensioni liriche

Il numero cinque tra i candidati al Premio Strega 2020 è una numero cinque, dopo quattro maschi che hanno esplorato l’arco costituzionale delle lettere italiane: autobiografia confessa, autobiografia sospetta, giallo che non si deve chiamare giallo, sofferenze degli ultimi & dimenticati. Sul sito della casa editrice Einaudi – che combatte contro sé medesima: Gianrico Carofiglio gareggia per Stile Libero – “Almarina” di Valeria Parrella vanta una parata di recensioni che diremmo “liriche”. Rischiando l’understatement.

 

E dunque, campionamento critico: “Intenso, struggente, musica che affonda le unghie nella realtà”. “Apre all’immensità”. “Passi talmente densi e folgoranti che diventa istintivo fermarsi, rileggere, lasciar agire (come un balsamo per capelli o fate voi)”. “La rotondità e la precisione dei dettagli”. Abbiamo solo messo in fila le frasi – per i contenuti decliniamo ogni responsabilità.

 

A pagina 69 di “Almarina” leggiamo tre righe di dialogo chiuse da “Si è fatta l’ora”. Viene immediatamente ribadito che valgono molto più di tre righe di dialogo. Avanziamo: “E’, questa confidenza, il segno che esisto. Ci sono voluti tre anni per costruirla, e poi, una volta ottenuta, essa passa, si trasmette”. “Essa”? Essa, sicuro, abbiamo fatto il copia & incolla. Neanche riusciamo a ricordare da quanti anni non vediamo più scritto il desueto pronome. Però risuona con “passa”, e una scrittura “da lasciar agire (come un balsamo per capelli o fate voi)” potrebbe mirare alla prosa poetica.

 

Dopo i due punti – dove, secondo un grammatico spiritoso, “si consegnano le merci promesse prima dei due punti” – la spiegazione: “I ragazzi vanno in altre carceri, tornano fuori a delinquere o partono per Edimburgo e si salveranno, ma lasciano un codice segreto nelle mura di Nisida, e tra le altre cose ci deve essere scritto chi merita e chi no”. Nisida, quindi carcere minorile, sull’isoletta napoletana. Chi parla – lo ricaviamo da pagina 69 (e la quarta di copertina rivela il nome, Elisabetta) – è un’insegnante di matematica che lavora con i ragazzi e le ragazze richiusi nell’istituto. Piuttosto riottosi, “tanto i conti della cocaina sono addizioni e sottrazioni, e quale che sia l’unità di misura, quello che importa è dove si ferma l’ago sul bilancino”.

 

Condizioni che dire avverse è poco. Peggio per una donna, cinquantenne che vive sola (è sempre il risvolto di copertina). Non so voi, ma noi abbiamo una certa allergia per “l’incontro di due solitudini”. Questo infatti si sta profilando nel romanzo, e l’insofferenza va a braccetto con la noia per il “risvoltese”. La lingua che cerca di acchiappare il lettore in libreria – il lettore, si intende che non segue il consiglio di Marshall McLuhan: andate a pagina 69, leggetela, fatevi un’idea (e neppure quello di Ford Madox Ford, che suggerisce di fare lo stesso con pagina 99 – detto per inciso, era un romanziere strepitoso negli incipit: “Questa è la storia più triste che abbia mai sentito”, così comincia “Il buon soldato”).

 

Non si sfugge: “La libertà di due solitudini” (il risvolto, puntuale, conferma e rivela che l’altra solitudine libera dentro il carcere si chiama Almarina). Andiamo a pagina 99, dove il quadro si allarga: “Chi pensa che Nisida sia un’aberrazione non conosce la città, e chi pensa che la città sia un’aberrazione non conosce il paese”. Gli allievi intanto svolgono il tema “Una cosa che mi è successa quando ero piccolo”. L’unico non a rischio: “In carcere del presente non si parla, e il futuro non si immagina”.

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