Drammatico Mencarelli

Mariarosa Mancuso

Chiuso in un reparto di psichiatria, “Tutto chiede salvezza” ci mette in trappola: non prevede critica, ma solo empatia

Abbiamo assommato finora – parlando di sestina Strega e di carotaggi – l’autofiction di Jonathan Bazzi, il romanzo giudiziario (o legal thriller) di Gianrico Carofiglio, il romanzo di formazione di Gian Arturo Ferrari (mettere di mezzo un narratore, per quanto i maligni possano sospettare storie di vita vissuta, protegge chi scrive e chi leggerà). Siamo al numero quattro, Daniele Mencarelli con “Tutto chiede salvezza” (Mondadori). In copertina: la foto in bianco e nero di un giovane riccioluto, nudo, affranto e tormentato, che si abbraccia le ginocchia in posizione fetale. E già la fascetta “Vincitore dello Strega 2020”. Premio Strega Giovani, si intende, assegnato da una giuria di ragazzi e ragazze dai 16 ai 18 anni.

 

Alla terza riga di pagina 69, leggiamo la parola “violenza”, seguita dalla parola “reparto”, seguita dalla sigla Tso che sta per Trattamento sanitario obbligatorio. Non serve conoscere Michel Foucault, e neppure Franco Basaglia, per capire che siamo dentro un’istituzione totale. Un posto dove nessuno va di propria volontà. Il risvolto di copertina viene in aiuto per la biografia (poeta, oltre che romanziere), e per un accenno di trama: il ventenne Daniele dopo un’esplosione di rabbia viene ricoverato in psichiatria. Nell’anno dei Mondiali del 1994.

 

D come dialogo e D come dialetto. “Mi’ fijo è sempre stato normale, lavoramo assieme, io c’ho quarant’anni de muratura alle spalle, lui me fa da manovale, fino a ’na mattina…”. Parla un padre in visita, puntuale con yogurt e cucchiaino per imboccare il figlio Alessandro. “Sei nòvo?”, chiede all’ultimo arrivato. Risposta: “Sì, pure se qui a ’sto reparto me conoscono bene, vango spesso”. Altra domanda: “Che c’hai?”. Altra risposta: “Io? Niente? Mamma è morta e io me so’ fatto questo”. Interviene il narratore: “Allunga il braccio per mostrare la fila sterminata di tagli, ma il padre di Alessandro non se ne accorge, preso com’è a imboccare il figlio”. Brivido. Qualcosa suggerisce che non usciremo dall’istituzione totale neppure a pagina 99 (è il carotaggio-prova-del-nove, a conforto o a smentita del primo). Prigionieri di un libro che non prevede critica ma solo umana empatia. “Gli scrittori devono avere una scheggia di ghiaccio nel cuore”, raccomandava Graham Greene. In Italia non gli avrebbero pubblicato neppure un raccontino, figuriamoci candidarlo allo Strega.

 

Passo indietro: “La casa degli sguardi”, il romanzo del 2018 di Daniele Mencarelli, raccontava un poeta alcolizzato che va a lavorare come volontario all’ospedale pediatrico Bambin Gesù. La morte e la malattia lo salvano. Non c’è recensore che non faccia riferimento a quanto lo scrittore si sia “messo a nudo”. E pazienza per quello snob di Baudelaire, che inventò la formula quando i poeti preferivano la dannazione. Una “medicheria”, scrive Daniele Mencarelli a pagina 99 di “Tutto chiede salvezza”. Una porta che dovrebbe restare chiusa viene aperta, il padre porta al narratore biscotti, acqua e una rivista da leggere. Un abbraccio e un altro abbraccio, il narratore riflette: “Ero bambino quando mi ritrovai per la prima volta ad abbracciare mio padre con uno strano sentimento serrato tra le mascelle. Quell’abbraccio sembrava l’ultimo”. Tra le sciagure dei romanzi italiani si contano i bambini con pensieri da adulti: guardano il mondo come un quarantenne sconsolato. Nel mentre, lo scrittore prima insiste sul dramma: “Come un congedo. Un addio”. Poi smentisce: “Dopo quel primo ne sono arrivati milioni di altri”. Stando alla lettera: non era l’ultimo, non era un congedo, non era neppure un addio.