Fiamme sul tetto di Notre Dame (foto LaPresse)

L'inverno della cultura

Giulio Meotti

Il sublime reazionario Jean Clair piange la terra natale: “Siamo nell’epoca in cui tutto è distrutto”

"Si indossa il lutto della propria vita molto prima della morte”. E’ una specie di requiem, per se stesso, per il suo e il nostro tempo, per il suo caro e vecchio paese. La disintegrazione della meritocrazia, la perdita dei valori, l’inghiottimento delle radici, il disfacimento delle campagne, la banalità che seduce, l’arroganza amnesica del Mondo Nuovo, l’ignoranza dei nuovi snob e dei piccoli marchesi della letteratura, le cui performance falsamente trasgressive lo riempiono di rabbia.

 

“A quel tempo esisteva il merito, era opportuno farne parte senza vergogna. Ora le élite non vanno più promosse ma eliminate”

C’è tanto, se non tutto, in “Terre Natale”, il nuovo libro di Jean Clair pubblicato da Gallimard. Il gigante della critica artistica e culturale francese racconta di un mondo scomparso, schiacciato da ciò che i marxisti chiamavano il “significato della storia”. Una terra di nessuno, che spinge il Figaro a parlare di un libro che deprime più delle geremiadi di Michel Houellebecq. In copertina del libro di Clair, la cattedrale di Notre Dame dopo il rogo di Pasqua. All’incendio, Jean Clair ha dedicato uno dei suoi ultimi articoli sul Figaro. “Da alcuni mesi, Parigi è diventata, stranamente, il luogo scelto per gli incendi. Gli occhi ci si sono abituati, al punto da considerarli banali. Ogni sabato bruciano negozi, chioschi, banche… Il rogo di Saint-Sulpice, il rogo di una panetteria ebraica”. Notre Dame in fiamme. “Non parleremo più, non una parola, dei fedeli della cattedrale, di un santuario bruciato nel mezzo della veglia pasquale… Un ‘fedele’ è oggi un essere più strano di un Bantu ai tempi di Voltaire. Inoltre, non vediamo più. Parleremo di ‘turisti’, centinaia di migliaia, milioni, delusi di trovare le porte chiuse”.

 

All’anagrafe Gérard Régnie, esperto d’arte di fama mondiale, ex curatore del Museo Nazionale di Arte Moderna, del Centro Pompidou, del Museo Picasso, saggista, romanziere, énarquiste e fra gli “immortali”, Jean Clair nel libro parla della morte della vita rurale, del Maggio ’68 “frutto decomposto del surrealismo”, delle assurdità di Jeff Koons, Daniel Buren o Damien Hirst, della disintegrazione della lingua francese, dell’irresponsabilità dei musei nazionali, dell’opera d’arte diventata ridicolo oggetto speculativo, della morte della spiritualità. Clair è l’erede di Robert Hughes, l’altro critico d’arte che non le mandava a dire, l’anticonformista pieno di buon senso nato in Australia e diventato il più spietato critico della società dello spettacolo, le cui sortite erano un invito a togliersi i paraocchi, demolitore di quel paradiso dei desideri che è diventata la televisione, della “cultura del pignisteo” e di un’arte vittima del vittimismo.

 

Come Hughes, Jean Clair scrive che oggi c’è bisogno di reazione. “La società moderna si sforza di stanare il reazionario, il pensiero reazionario, il gesto reazionario – fino a quando non resta altro che un grande e inerte corpo che non risponde”. E come un altro grande della cultura francese, Philippe Muray, Clair non si esercita nel disprezzo dei contemporanei. Odia semplicemente il nichilismo del suo tempo, il nulla che contiene, che consuma, in cui si perde. “Conservatore, questa è l’ultima occupazione aristocratica che rimane in questo mondo moderno”. Specie “in un’epoca in cui tutto è distrutto”. A chi lo accusa di oscurantismo, si deve ricordare che è cresciuto sotto la luce del modernismo, dai musei alla direzione de L’Art Vivant, rivista simbolo delle avanguardie.

 

Qualche anno fa, sulla fascetta di copertina del suo “De immundo”, Clair ha fatto mettere la celebre Merda d’artista di Piero Manzoni. E dentro: “Non c’è nulla da pensare, niente da dire della merda. Un’arte che mette in scena il suo stesso abbandono, un abbandono che va fino al rilassamento degli sfinteri, non fa forse altro se non fornire, così facendo, il segnale della morte clinica?”.

 

“In Norvegia, oltre il circolo polare artico, ho trovato una piccola chiesa di legno. A Bruxelles c’è il museo d’Europa, un abominio”

Profondamente sfiduciato circa la capacità umana e culturale di mettere ordine nel caos che ha visto brulicare, Clair ha scritto “Terre Natale” come un elogio della pietà cristiana: “C’è nella pietà qualcosa di molto forte, che va contro tutte le doxe contemporanee rivolte alla derisione, disprezzo, cinismo, rifiuto del passato o della storia, regole, norme e, ovviamente, il rifiuto della pietà filiale o religiosa, come pietà verso la nostra cultura”. E’ anche un elogio delle élite: “Mi considero lo straordinario beneficiario di un sistema che esisteva in Francia, la meritocrazia repubblicana. A quel tempo esisteva il merito, esistevano le élite ed era opportuno farne parte senza vergogna. Oggi la meritocrazia è disapprovata e le élite non devono più essere promosse ma eliminate”. Oggi vige la “democratizzazione” della cultura. “L’asino che mette il proprio carico in groppa al padrone e lo picchia, il professore trascinato davanti al giudice per aver schiaffeggiato lo studente che lo insultava, il bue che con il coltello taglia a pezzi il macellaio, gli oggetti dichiarati ‘barocchi’ da Koons. Fine di un mondo”.

 

Non ama l’algida Europa, Clair: “Nel nord della Norvegia, oltre il circolo polare artico, ho trovato una piccola chiesa di legno con una pala d’altare fiamminga del XV secolo che ha raggiunto le gelide solitudini grazie al commercio dei mercanti anseatici. Si cercherebbe invano l’equivalente nel sobborgo industriale di Bruxelles, dove è annidato il museo d’Europa, un abominio a causa della povertà dei manufatti e degli oggetti lì presentati”. Clair interpreta la crisi dei gilet gialli come un simbolo della fine di un mondo, il suo: “Capii immediatamente che questa rivolta era l’esplosione finale di questa immensa espropriazione di un mondo rurale disperato. Ho visto le città fantasma, le fattorie abbandonate, la transizione verso un’agricoltura industriale terribile e mortale, e non vedo come ne usciremo. Mi sembra di non avere ritorno e che non ci sia alcuna via d’uscita. Ciò che sta accadendo da diversi anni è più una decimazione, uno sradicamento radicale del mondo contadino”. Lamenta la perdita della lingua: “La nostra lingua si sta restringendo, diventando più banale. L’impoverimento del linguaggio, il lessico, il vocabolario, l’ignoranza della sintassi, tutto ciò è disperante. Quando arriviamo a questo punto di deliquescenza e stupefazione, siamo alla fine di una civiltà”. Vede Parigi “esitante tra il parco di divertimenti e la casa di riposo”.

 

Non è un caso se uno dei suoi libri più famosi si intitoli “L’inverno della cultura”. Finita la cultura, resta solo il “culturale”. Un diluvio di culturale. Qualche anno fa, al Salone di Torino, Clair ha citato Thomas Mann, che “nel suo romanzo ‘Doktor Faustus’, fa dire a Mephisto che ‘da quando la cultura si è distaccata dal culto per diventare culto essa stessa, non è più che uno scarto, un rifiuto’”.

 

“L’arte cristiana è l’unica che mostra tanta tenerezza, spiritualità e umanità. Abbiamo liquidato le radici giudaico-cristiane”

Non siamo più nella cultura alta, ma semplicemente in alto. “Liberata dalle sue origini religiose, liberata dall’imperativo di avere un senso da trasmettere, la cultura sembrava avere tutto il potere di fornire all’uomo un divertimento supremo”. Non ha funzionato. “Si potrebbe citare Tertulliano e il suo libro, ‘De spectaculis’, in cui il grande cristiano è indignato per la moltiplicazione di spettacoli teatrali, giochi circensi e altri combattimenti gladiatori, che occupavano 200 giorni all’anno. Era nel terzo secolo. Si ha l’impressione che ciò che stiamo vivendo sia solo la ripetizione di una scena già interpretata durante il declino dell’Impero romano”. 

 

“Figlio dei poveri”, come si definisce, Clair difende la cultura popolare contro la cultura di massa. “La cultura laica, con tutti i suoi prodotti, libri, opere d’arte, musica profana, tutta intenta a celebrare l’uomo, è finita nel deserto”.

 

Una parte dell’intellighenzia parigina non apprezza questo snob piantagrane. “Le mie origini popolari e contadine mi hanno permesso di non essere mai legato a un ambiente”, ribatte Clair, figlio di un socialista di Morvan e di una cattolica di Mayenne. “Sto assistendo al rituale funebre dove, celebrato da corpi nudi e dipinti, seppelliremo felicemente i resti di quella che era la nostra cultura”. Condanna il facile relativismo multiculti: “Non si tratta di mettere in discussione la diversità delle culture, ma è proprio riconoscendola, che combatteremo la doxa che vuole che siano intercambiabili. Ho vissuto all’estero, parlo diverse lingue, sono appassionato di culture straniere e non credo che, a causa di un fenomeno di osmosi, si fonderanno l’una con l’altra in un osanna alla gloria di uno Spirito universale”. Ha paragonato il Cristo nell’urina di Andres Serrano a Satana. “Sì, Satana… ciò che mi sorprende è che il mondo oggi non crede nel Male”.

 

“E’ in corso un’autoadorazione dell’uomo da parte dell’uomo che si conclude nella spazzatura o nell’imbecillità”

Ama l’arte cristiana, “l’unica forma d’arte nel mondo che mostra tanta tenerezza, spiritualità e umanità”. Attacca “questi orrori post-hitleriani, l’eugenetica e l’eutanasia, che vengono messi in atto”. In “La Part de l’ange”, il suo libro precedente, Clair stigmatizzava la scristianizzazione della Francia: “Dalla negazione alla negazione, dalla codardia alla codardia, saremo pronti al massacro”. Attacca la “miseria della liturgia secolarista”, la “rottura del simbolico”, la “povertà di un immaginario che non è altro che l’immagine di un bazar piccolo-borghese”, perché “abbiamo liquidato l’incredibile tesoro di simboli che le radici giudaico-cristiane ci avevano lasciato in eredità in Europa”. E ancora: “Abbattere le frontiere, sopprimere i limiti, strappare le siepi sino alla radice significa desacralizzare uno spazio di cui la casa colonica, per la sua forma come per la sua funzione, era il cuore. Vuol dire consegnare insensibilmente il mondo al caos. E’ scucire un vestito che nel tempo era stato sapientemente tessuto, per mettere un corpo a nudo prima di consegnarlo ai bruti”.

 

Detesta la rivoluzione digitale, “in realtà solo l’ultimo episodio della lunga storia della distruzione delle biblioteche, dell’incendio di Alessandria, dell’attentato di Sarajevo, Baghdad e la comune di Parigi… Il disastro che si svolge davanti ai nostri occhi è tanto più profondo quanto si sviluppa nell’entusiasmo di coloro che alimentano con orgoglio questi nuovi autodafé per lasciare il posto al potere illimitato dei big data. Niente più storia ed eredità”.

 

Tutto ciò che è troppo visibile muore della sua visibilità, spiegava già nel suo “Dialogue avec les morts”. “Tutto ci impone ormai, in occidente, di spogliarci corpo e anima, davanti a chiunque”. L’arte contemporanea è il sintomo più evidente del tumulto intellettuale e spirituale della società occidentale. “Quando non sappiamo più a cosa serve l’arte, non sappiamo più a cosa servono i pilastri della società, lo stato, quindi la società stessa. L’uomo si trova di fronte a un vuoto assoluto. Non sa dove sta andando. La storia dell’arte detta moderna era la storia della nostra propria fine. Stiamo allineando, di decennio in decennio, i sintomi più evidenti di un’auto-adorazione dell’uomo da parte dell’uomo, che si conclude nella spazzatura o nell’imbecillità”.

 

Se la prende con “le chiacchiere dei talk-show, la parola ‘liberata’ sui social network, un bisogno continuo di esprimersi con la sporcizia, contaminare, deteriorare”. La chiama “fecalizzazione di una società che non è diventata permissiva, ma del godimento di un narcisismo infantile di cui Freud aveva analizzato le origini e le componenti, una fusione anale destinata a possedere il mondo”.

Eppure, questo super contrarian tempera sempre il proprio pessimismo: “Se fossi nato venti anni prima, avrei vissuto il nazionalsocialismo, un’epoca in cui avremmo potuto disperare di tutto. Ciò che viviamo oggi è poco più di un tempo di frivolezza e futilità”. Un secolo traboccante. A chi lo ha accusato di poujadismo, Clair ribatte: “Falso, sono solo reazionario, profondamente reazionario”. Almeno fino a quando sarà il tempo “di quelli che, diceva Mathurin Régnier, pisciano nelle acquasantiere perché si parli di loro”.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.