Immagine tratta dal film con Alberto Sordi "Detenuto in attesa di giudizio"

Il processo infinito

Andrea Minuz

La sospensione della prescrizione è il sogno più sfrenato della rabbia populista. Un plagio di Kafka, l’estensione del teorema inquisitorio di Pasolini. E richiama una straziante commedia con Alberto Sordi

Vengono in mente la scala infinita di Penrose, le prospettive di Escher, le carceri perennemente espandibili di Piranesi, i loro oscuri labirinti inviolabili come un enigma. Viene in mente naturalmente Kafka. La proposta del blocco della prescrizione dopo il primo grado di giudizio sembra scaturire dalle migliori pagine del “Processo” come la concreta realizzazione dell’idea di “assoluzione apparente”: “Se lei è assolto in questo modo”, spiega il pittore Titorelli all’imputato K., “per il momento è sottratto all’imputazione, ma questa continua a rimanere sospesa sopra di lei, se viene l’ordine superiore può tornare subito in vigore”; il processo può sempre riprendere, tutto è provvisorio, imprevedibile, interminabile: “Alla seconda assoluzione fa seguito il terzo arresto, alla terza assoluzione il quarto arresto e così via. Questo è lo spirito dell’assoluzione apparente”. Nel contratto di governo si annidano plagi da Kafka e Wikipedia. Com’è noto, pare che Kafka amasse leggere il primo capitolo del “Processo” ad amici e conoscenti sganasciandosi dalle risate; forse oggi si divertirebbe un mondo a leggergli il decreto di legge 1189, con gli “agenti provocatori”, l’abolizione della prescrizione, uno stato che persegue all’infinito tutti i reati. Roba da far impallidire “Il processo”, anche perché lì K. viene arrestato il giorno del suo trentesimo compleanno e la vicenda si conclude alla vigilia dei suoi trentuno anni: tutto sommato gli è andata bene.

 

La sospensione della prescrizione dopo la prima sentenza, non importa se di condanna o assoluzione, è il sogno più sfrenato della rabbia populista. E’ l’utopia che incarna al meglio la sintesi di ferocia giustizialista, demone della purezza e culto per la paralisi burocratica dell’ideologia grillina, una visione del mondo che trova proprio nell’estensione potenzialmente infinita della pretesa punitiva dello stato la sua chiave di volta. L’idea di uno stato che ci processa per sempre apre mondi sconfinati, eppure lascia freddi i guardiani della Costituzione più bella del mondo (tutti scomparsi). Nessun appello, sit-in, fiaccolata, neanche una copertina di Rolling Stone. Nessun intellettuale e scrittore disposto a “mettere in gioco il proprio corpo” come con la “Diciotti”, l’emergenza migranti o il ritorno del fascismo un giorno sì, l’altro pure. Si resta tutti impassibili di fronte alla prospettiva di una macchina processuale senza alcun termine di prescrizione, di cause con avvicendamenti generazionali, di invecchiamenti in tribunale. Non resta che confidare in un moto di sdegno della buona borghesia torinese o dei Parioli. Staremo a vedere.

 

“Alla seconda assoluzione fa seguito il terzo arresto, alla terza assoluzione il quarto arresto. E’ lo spirito dell’assoluzione apparente”

Un lento inabissamento nella sciatteria della nostra burocrazia, nella disumanità del carcere e della carcerazione preventiva

“Quando si parla di giustizia – dice il ministro Bonafede – pensiamo che i nostri riferimenti possano essere i giudici o gli avvocati, ma in realtà i veri giudici della giustizia sono i cittadini”. Ci vorrebbe però anche un bel referendum sulla ghigliottina, se non è abbastanza democrazia diretta. D’altronde, se come dice Davigo, “tagliando la prescrizione i processi si accorciano”, perché in certi casi non tagliare direttamente i processi?

 

Se la gigantografia di Rocco Casalino in collegamento da Fazio era l’emblema della vendetta del “Grande Fratello” sulle liturgie del servizio pubblico, il processo interminabile è il coronamento di un immaginario democratico costruito sull’indignazione, la vendetta, il trasferimento della sovranità a favore dei giudici che affonda le proprie radici negli anni furiosi di Mani pulite. E’ da lì (e dal processo a Giulio Andreotti) che viene questa riforma della giustizia. Se Massimo Bordin ha recentemente ricordato quanto il processo Andreotti “fu inutile e foriero della peggiore demagogia negli anni successivi”, Panebianco ha definito Mani pulite “la madre di tutte le fake news, la falsa idea secondo cui questo sarebbe il paese più corrotto del mondo o giù di lì” e solo, ovviamente “per responsabilità dei politici”. “Un’idea”, prosegue Panebianco, “che nessuno ha più tolto dalla testa di gran parte degli italiani. Si capisce perché. Alle suddette burocrazie fa comodo che i nostri concittadini lo pensino per tenere sulla graticola la politica rappresentativa, per mantenere deboli, ricattabili e al guinzaglio i politici”. La sospensione della prescrizione diventa così anche l’estensione infinita del teorema inquisitorio di Pasolini, “io so ma non ho le prove”, però ho tempo, aspetterò, hai visto mai. “La prescrizione è un’isola di impunità che indebolisce la lotta alla corruzione”, spiegava pochi giorni fa il ministro della Giustizia; è un intralcio nell’oceano-mare della colpa collettiva. Forse è per questo che non abbiamo un premier ma un “avvocato difensore del popolo italiano”. Si possono già immaginare nuovi scenari per i “legal drama” italiani: “Un anno in pretura”, “Forum in loop”, “Il verdetto infinito”. Si ritorna sempre al punto di partenza, si ritorna cioè su quelle formidabili pagine di Enzo Tortora, pubblicate nel 1984 mentre aspettava l’inizio del suo processo: “Io sono convinto che gli italiani abbiano della giustizia un’idea ricavata esclusivamente dai telefilm polizieschi inglesi o americani, ambientati in una bella aula di tribunale, tutta in acero, con un giudice in parrucca, sempre calmo, sereno, molto cortese che batte, di tanto in tanto, il suo martelletto di legno e che appena si sente dire dal difensore di un imputato: Vostro onore, mi oppongo! Risponde amabilmente: Obiezione accolta, sentiamo”. “Alle volte – proseguiva Tortora – penso che sarebbe molto proficuo se, invece dei telefilm alla Perry Mason, la tv statale fosse tenuta per legge a trasmettere i processi che si celebrano in Italia. Solo allora probabilmente la gente prenderebbe coscienza delle lungaggine, della trasandatezza, della curialità della nostra giustizia”. Di lì a qualche anno la tv avrebbe seguito il consiglio di Tortora. Nel 1988 parte “Un giorno in pretura”. All’inizio si sviluppa come una specie di versione neorealista di “Forum” (liti condominiali, piccole rapine), poi darà visibilità ai grandi processi della cronaca politica, Enimont, Priebke e le Fosse Ardeatine, la Strage di Bologna, ma sempre con l’idea della presa diretta senza commenti, della “long durée” come contraltare ai botta e risposta fulminanti dei courtroom drama hollywoodiani. Nel cinema italiano, invece, la trasandatezza della giustizia si trasforma quasi sempre in commedia, più raramente in incubo, registri che però da noi, si sa, sono sempre sovrapponibili. Il contributo del cinema alla storia giudiziaria del paese è racchiuso tutto sommato in pochi titoli, con le aule di tribunale a fare per lo più da sfondo a vicende comiche, lazzi, arringhe iperboliche di avvocati in preda a fumisterie dannunziane e lessico borbonico. Però nella pulsione giustizialista che ora ci presenta il conto si riconoscono i lineamenti di vecchi film che tornano a parlarci. Titoli “profetici”, come si dice in questi casi. “Detenuto in attesa di giudizio” e “In nome del popolo italiano” escono entrambi nel 1971 e restano ancora oggi tra le pellicole più formidabili sul rapporto tra giustizia e ideologia italiana, sull’impasto di trasandatezza e follia della nostra burocrazia, sui pericoli di una magistratura che si trascina dietro pregiudizi morali, cultura del sospetto e odio ideologico. All’epoca in pochi li prendono sul serio, anche perché non hanno il pedigree dell’impegno civile ma appartengono alla galassia già in crisi della commedia (il primo è un film con Alberto Sordi, l’altro una regia di Dino Risi con la coppia dei “mostri”, Gassman-Tognazzi). Viene spesso ricordato quanto e come il film di Risi anticipi il clima e il furore ideologico di Tangentopoli; meno evocato è invece il film con Sordi che però ha una capacità oggi immutata di mandarci a sbattere contro le anomalie, le abnormità, le follie, le iniquità della giustizia italiana.

 

“Sono convinto che gli italiani abbiano della giustizia un’idea ricavata solo dai telefilm polizieschi inglesi o americani” (Tortora)

“Detenuto in attesa di giudizio” mette in scena l’universo kafkiano in cui sprofonda un cittadino alle prese con la giustizia italiana

Se “In nome del popolo italiano” intercettava un passaggio storico cruciale, ovvero la ridefinizione del ruolo sociale del magistrato che in quegli anni, sulla scia dell’ideologa egualitaria e della corrente di Magistratura democratica, si avvia a farsi interprete, risolutore e vendicatore dei “conflitti sociali”, “Detenuto in attesa di giudizio” metteva in scena all’opposto l’universo kafkiano in cui sprofonda un cittadino alle prese con la giustizia italiana (un cittadino qualunque simboleggiato dal nome didascalico: “Giuseppe Di Noi”). Sordi raccontava che il primo spunto del film (ideato in seguito dal suo “cervello” di fiducia, Rodolfo Sonego) venne da un viaggio in Svezia, agli inizi degli anni Sessanta, durante le riprese del film “Il diavolo”: “Una signora che lavorava alle Belle arti e che mi aveva aiutato a rubare alcune scene della consegna del Nobel, mi portò a visitare Stoccolma. Nei dintorni, mi colpì una struttura molto ampia, ridente, circondata dal verde: Un hotel a quattro stelle? domandai. No, mi risposero, è il carcere dove i detenuti in attesa di giudizio aspettano il processo, liberi di ricevere i familiari e seguire i propri interessi. Allora io pensai: e in Italia cosa succede a uno che aspetta di venire giudicato? Soprattutto in considerazione dei tempi lunghissimi della nostra giustizia”. Giuseppe di Noi, di professione geometra diplomato, vive con la moglie Ingrid e i suoi due bambini biondissimi a Norrköping. Dopo sette anni di agognata attesa decide di prendersi una breve vacanza e tornare in Italia per far conoscere a moglie e figli la sua amata terra di origine. Qui inizia l’incubo. Dopo una sfilza di commedie vacanziere con Sordi spedito all’estero ora, all’opposto, rientrava in Italia dalla Svezia e improvvisamente veniva fermato e arrestato alla dogana. Motivo? Omicidio colposo di un tale Franz Kartenbruner. Nel pellegrinaggio da un carcere all’altro, Giuseppe Di Noi si sforza di pensare a questo Franz Kartenbruner che però non hai mai conosciuto. Annaspa nel vuoto e si aggrappa infine all’ipotesi più surreale: Kartenbruner potrebbe essere il nome della guardia tedesca del campo di prigionia dove Di Noi era rinchiuso ai tempi della guerra: “Fosse morto per le botte che mi ha dato?”.

 

“Detenuto in attesa di giudizio” è un lento, straziante inabissamento nella sciatteria della nostra burocrazia, nella disumanità del carcere e della carcerazione preventiva, un viaggio che porterà Giuseppe Di Noi alla follia. Alla fine, rinchiuso in un ospedale psichiatrico, arriva finalmente la spiegazione dell’errore, anche questo attualissimo: Franz Kartenbruner era un turista tedesco morto a causa del crollo del viadotto della superstrada Battipaglia-Matera mentre era in vacanza in Italia; Di Noi lavorava per l’impresa edile che aveva costruito la strada e anche se al momento crollo viveva in Svezia ormai da sette anni risultava ancora al servizio della ditta. Un mancato coordinamento e trasmissione di notifiche tra gli uffici del ministero dell’Interno e la polizia di frontiera. “Avrei potuto fare ben poco senza la solerzia e la comprensione del giudice che ha persino rimandato di qualche giorno la partenza per le vacanze per seguire personalmente l’iter della pratica”, gli spiega alla fine l’avvocato, ma il giudice non si era mai visto. Aveva altro da fare. Di Noi torna infine in Svezia, ma è un uomo distrutto. Al momento di fornire i documenti alla dogana tutto sembra ripartire dall’inizio, un altro fermo di polizia, come in un processo infinito, ma è solo un incubo, o un mondo senza più prescrizione. Fosse stato un film con Gian Maria Volonté, “Detenuto in attesa di giudizio” sarebbe ancora oggi ricordato come uno tra i titoli più “alti” e indignati del cinema civile italiano. Invece era solo un film con Alberto Sordi (che vincerà il premio come miglior attore al Festival di Berlino). Di più, era un film su un borghese che finisce stritolato dentro una macchina processuale incomprensibile, dunque un personaggio inservibile alla causa del conflitto sociale: “Detenuto in attesa di giudizio”, si leggeva nelle recensioni dell’epoca, “è un film che non fa un discorso sulle carceri, ma sul borghese in carcere; manca una riflessione sulle classi sociali e non emerge con chiarezza l’uso politico della carcerazione preventiva”. Chiaro no? Un borghese in carcere non finirà mai davvero in carcere “ingiustamente”. Ha pur sempre da scontare la colpa di essere borghese. Oggi che questo antico furore ideologico si è finalmente saldato con la rabbia demagogico-populista possiamo chiudere il cerchio. E buttare la chiave.

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