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“In Italia i diritti dei cittadini dipendono dalle sentenze dei giudici”

Annalisa Chirico

“Stiamo passando a un sistema di common law”, dice Luciano Violante: “La legge del Parlamento conta sempre meno”

Roma. L’Italia non è più un sistema di civil law. Detto così, suona perentorio, eppure quando il professore Luciano Violante pronuncia l’impronunciabile, nella sala della Camera di commercio fiorentina i presenti sollevano lo sguardo: ha detto proprio così? Pensavamo che il modello italiano si fondasse sulla codificazione del diritto scritto e sul ruolo preminente della legge nel guidare le decisioni della magistratura, chiamata ad applicare la normativa vigente al caso concreto. Violante invece rompe il tabù. Sotto gli occhi della presidente del tribunale di Firenze Marilena Rizzo e del numero uno della Camera di commercio Leonardo Bassilichi, il presidente emerito della Camera dei deputati spiega che “l’ordinamento italiano sta scivolando gradualmente verso un modello di common law dove al diritto legislativo si sostituisce quello giurisprudenziale: i diritti dei cittadini non dipendono più dalla legge del Parlamento ma dalle sentenze dei giudici”. Com’è noto, il sistema anglosassone si basa segnatamente sulla vincolatività delle sentenze per i casi futuri: in nome del cosiddetto stare decisis, il giudice è vincolato dal precedente giudiziario in una materia analoga.

 

L’ex presidente della Camera denuncia che sempre più spesso “si assiste a decisioni contraddittorie emesse da un unico organo, con inevitabile pregiudizio per lo sviluppo economico e per la certezza dei rapporti tra le persone”. La necessità di porre freni alla “tendenziale anarchia attuale”

“La crescente incertezza della legge, problema non solo italiano, deriva dalla sovrapposizione di molteplici fonti legislative che assegnano una responsabilità enorme in capo ai giudici”. In altre parole, la legge del Parlamento conta sempre meno. “Nella giungla di livelli normativi diversi (regionale, nazionale, comunitario, sovranazionale), la risoluzione dei conflitti tra cittadini o tra cittadini e stato è demandata ai magistrati per i quali il precedente non rappresenta un elemento ragionevolmente vincolante. Si assiste perciò a decisioni contraddittorie emesse da un unico organo, con inevitabile pregiudizio per lo sviluppo economico e per la certezza dei rapporti tra le persone”.

 

Il rischio è che il valore vincolante del precedente ingabbi la giurisprudenza. “Non s’intende rendere la giurisprudenza immutabile ma porre un limite alla tendenziale anarchia attuale. Venuto meno il ruolo di agenzie educative e corpi intermedi, ogni forma di tensione sociale si traduce in un intervento giudiziario. Mentre si fa strada in tutta Europa la tendenza a ricorrere alla giurisdizione come strumento ordinario di risoluzione dei conflitti, dovremmo ricordare che essa è una risorsa limitata da utilizzare come ultima ratio. Ogni processo costa allo stato, ai cittadini e alle imprese coinvolte. Il ricorso irragionevole alla giurisdizione va disincentivato”.

 

A Firenze, grazie al Patto per la giustizia siglato tra tribunale, Città metropolitana, Camera di commercio e Fondazione Cassa di risparmio, la percentuale di controversie risolte con la mediazione è salita al 53 percento, contro una media nazionale del 12. “Anziché cedere al vizio nazionale dell’autodenigrazione, dovremmo valorizzare e far conoscere le buone prassi. A parità di risorse e norme, esistono divari di produttività tra gli uffici giudiziari, a conferma che l’organizzazione del lavoro dei magistrati richiede una buona dose di capacità imprenditoriale”. A proposito del ruolo crescente dei giudici, all’estero hanno coniato la formula juristocracy. “L’espressione si riferisce alla giurisdizionalizzazione della società, fenomeno di portata globale che va osservato con particolare attenzione in un paese dove il 40 per cento dei procedimenti penali si conclude con proscioglimenti e assoluzioni. Dietro i numeri ci sono vicende umane, persone costrette a pagarsi l’avvocato, magari additate dai conoscenti o sui giornali. Il diritto penale dovrebbe essere limitato alla lesione dei grandi beni costituzionali, negli altri casi la sanzione amministrativa è sufficiente. Dobbiamo combattere l’idea che più pena voglia dire più ordine: in nome di questa illusione repressiva il Codice, modificato a più riprese, e sempre in modo episodico, senza una logica strategica, si è trasformato nella Magna charta della politica. Il Codice deve fissare il discrimine tra lecito e illecito, non tra giusto e sbagliato. La morale sta da un’altra parte”.

 

L’incertezza della legge e della sua interpretazione dà luogo alla cosiddetta “burocrazia difensiva”, vale a dire alla ritrosia del pubblico ufficiale ad apporre una firma per non incappare in possibili sanzioni. “L’incertezza della norma determina l’incertezza della responsabilità che paralizza macchina amministrativa e iniziativa imprenditoriale. Con l’associazione ‘Italia decide’ abbiamo rivolto un appello al presidente del Consiglio Giuseppe Conte indicando alcune linee di riforma. E’ necessario tipicizzare i casi di responsabilità contabile e le fattispecie penali di abuso d’ufficio e turbativa d’asta; andrebbe inoltre stabilito che non possa integrare colpa grave la condotta del pubblico ufficiale conforme a sentenza della magistratura ordinaria o amministrativa che non sia stata ancora corretta nel grado successivo del procedimento”. Lei sa bene che questa materia non è all’ordine del giorno. “Io non sono più in Parlamento”, chiosa Violante.

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