Piercamillo Davigo (foto LaPresse)

La dottrina Davigo applicata al presunto "delitto d'onore"

Massimo Bordin

La strana teoria secondo cui l’imputato assolto, o quello a cui viene ridotta la richiesta di pena, è semplicemente un colpevole fortunato

L’ottimo articolo di Mattia Feltri ieri sulla Stampa coglie, come meglio non si potrebbe, un aspetto paradossale delle reazioni messe nero su bianco a proposito della sentenza che, a detta di alcuni, ripristinerebbe il delitto d’onore. Il “dimezzamento della pena”, di cui molti hanno parlato con sicumera e qualcuno ha inserito nei titoli di giornale, è stato in realtà un dimezzamento virtuale perché nessuna pena era stata inflitta ma il pubblico ministero aveva richiesto quella massima. Nell’articolo citato se ne deduce che ormai l’opinione pubblica, o almeno una sua parte, è portata a ritenere che la pena non possa essere graduata se non causando una sconfitta della giustizia. A questa corrente di pensiero, stigmatizzata da Mattia Feltri, sembra aderire anche il presidente del Consiglio, pur con quella sfumatura di ambiguità che ne ha costruito la fama di abile mediatore, con una sua dichiarazione riportata dai giornali ieri. Nell’articolo si coglie un altro aspetto della stessa questione che non è meno importante. Ormai il criterio invalso nella stampa, prima ancora che nell’opinione pubblica, considera l’ipotesi accusatoria giunta al dibattimento come una sentenza da ratificare. E’ la dottrina Davigo che vede l’imputato assolto, o che vede ridotta la richiesta di pena, semplicemente come un colpevole fortunato. Il paradosso sta nel fatto che questa dottrina, che sembra essere ormai egemone, è largamente minoritaria proprio fra i magistrati e i giuristi. Basta vedere la composizione dell’Anm e del Csm, dove la corrente di Davigo rappresenta un’infima minoranza.

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