Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte all’inaugurazione dell’anno giudiziario (Foto LaPresse)

La condanna degli innocenti

Alessandro Barbano

Un milione e mezzo di persone attende 4 anni per poi essere assolta. L’orrore della non-giustizia illiberale

Immaginate di restare quattro anni sotto inchiesta, e magari di averne trascorsi una parte in carcere o agli arresti domiciliari, di avere perso il lavoro e di aver sconvolto la vostra famiglia e i vostri affetti, e alla fine di questo calvario di essere stati assolti. Poi moltiplicate ciò che avete immaginato accadesse a voi per un milione e mezzo di persone. E avrete la percezione corretta di ciò che avviene in Italia. La notizia l’ha data il presidente del tribunale di Torino, Massimo Terzi, all’inaugurazione dell’anno giudiziario. Un imputato ogni tre viene assolto nei giudizi di primo grado di fronte al tribunale collegiale, e un imputato su due di fronte al giudice monocratico. Aggiungete le assoluzioni in appello e in Cassazione, e proiettate, come ha fatto l’alto magistrato, questo dato su scala nazionale per un decennio. Avrete la cifra monstre di un milione e mezzo di indagati, arrestati, intercettati, interrogati, pur essendo innocenti, che attendono in media quattro anni per sottrarsi all’incubo di un’inchiesta penale che coincide con una persecuzione.

 

Una visione giudiziaria della democrazia, che assegna alla giustizia una funzione suprema di controllo dell’intero spazio civile

Ora immaginate che la notizia sia del tutto ignorata dalla stampa e dalle tv italiane, fatta eccezione per il Corriere della Sera, che la riporta in un articolo di Luigi Ferrarella solo a pagina 21, in un’edizione, quella di domenica scorsa, aperta in prima pagina dall’ultimatum della Ue a Maduro e dalla divisione del governo italiano sul destino del regime illiberale venezuelano. E chiedetevi, da ultimo, se non abbiamo, noi italiani e le nostre élite che ci rappresentano e ci raccontano, due occhi e due misure per la libertà.

 

Si dirà: vuoi mettere a confronto una dittatura feroce con una democrazia? Il paragone certamente non regge. Ma proprio perché la nostra civiltà democratica origina oltre due secoli fa nel pensiero di patrioti liberali come Cesare Beccaria, non dovremmo ignorare l’orrore che si nasconde in certi angoli oscuri delle democrazie. Perché di orrore si tratta. Un immenso carico di dolore, privazioni, lutti, ferite tra le famiglie e le generazioni, che si infligge per mano dello Stato. E che produce frustrazione, rabbia, desiderio di vendetta e contribuisce ad avvelenare ancora di più il clima di una comunità già esasperata da un declino economico e civile che si trascina ormai da decenni.

 

La prima cosa da fare è chiedersi perché abbiamo, del nostro paese, un racconto rovesciato. Perché ci indigniamo se i processi prescritti arrivano al nove per cento e restiamo impassibili se i processi indebiti, inutili e ingiusti superano il cinquanta. Vuol dire che noi tutti, cittadini ed élite, abbiamo fatto nostra una visione giudiziaria della democrazia, che assegna alla giustizia una funzione suprema di controllo dell’intero spazio civile. Ma vuol dire anche che questo controllo delegato rappresenta ormai per una parte della magistratura il fine in grado di giustificare qualunque mezzo, in nome di una visione per così dire sostanzialista.

 

La denuncia del presidente del tribunale di Torino, Massimo Terzi, all’inaugurazione dell’anno giudiziario. Soluzioni sono difficili

Così, se la pubblica accusa istruisce processi che in un caso su due sono diretti contro persone innocenti, la circostanza non suscita particolare turbamento. Di fronte a dati tanto drammatici, una parte dei pm pensa e dice senza pudore che il processo è lo spazio civile necessario ad acclarare l’innocenza del cittadino. Se questo fosse vero, vorrebbe dire che fuori dal processo siamo tutti presunti colpevoli. Mi viene in mente a tal proposito una singolare risposta di un magistrato della procura di Napoli. Era scattata, qualche anno fa, un’inchiesta denominata Affittopoli, che aveva portato in carcere e agli arresti domiciliari una sessantina di professionisti e amministratori cittadini. Ma dopo un mese di detenzione il Tribunale del Riesame aveva revocato i nove decimi dei provvedimenti cautelari richiesti dalla procura e autorizzati dal gip, sostenendone la pressoché totale infondatezza. Al giornalista che gli chiedeva conto di quella macroscopica smentita, il magistrato rispondeva che si trattava della “normale dialettica tra pubblica accusa e giudici di garanzia”.

 

L’orrore alligna e prospera dietro e dentro simili risposte burocratiche. Perché niente quanto la burocrazia è in grado di operare una scissione tra il piano delle idee e quello della realtà, facendo precipitare le persone coinvolte nel crepaccio aperto da questa frattura. Purtroppo questo approccio non è isolato. Lo dicono i numeri, a volerli ascoltare. Quelli della Corte d’Appello di Milano raccontano di 121 mila fascicoli di indagini preliminari che sono rimasti aperti per oltre due anni e che, secondo l’ultima riforma del processo penale varata dal governo Gentiloni, dovrebbero essere avocati dalla Procura generale.

 

Sennonché la Procura generale non ha i mezzi per surrogare i magistrati inadempienti. E questo può voler dire molte cose, a seconda dell’angolazione con cui si guarda al problema. La prima è che i magistrati sono pochi. Certamente è vero, ed è quasi un miracolo che, come sostiene il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, si raggiunga qualche risultato nelle condizioni date. La seconda è che non è colpa della prescrizione se i processi non si celebrano. Ma piuttosto, come ammette la presidente della corte d’Appello di Milano, Marina Tavassi, “i processi non si fanno per innumerevoli ragioni e, quindi, si prescrivono”. La terza è che in quel crepaccio che si apre tra le regole della legge e la prassi sono cadute almeno 121 mila persone, ma in realtà molte di più, se si considera che alcune inchieste riguardano decine di indagati.

 

Da questa ultima angolazione la questione assume un significato diverso, e forse più ampio. Se anche i magistrati inquirenti fossero incrementati del 20 o del 30 per cento, non resterebbe forse un numero insostenibile di innocenti, condannati insieme con le loro famiglie a un’attesa straziante? La dimensione dell’orrore non è quantitativa, ma qualitativa. Riguarda l’idea che il processo sia una circostanza normale, e non piuttosto eccezionale, della democrazia. Per comprendere quanto questa prospettiva sia deviante si deve parlare con i figli degli indagati e dei processati innocenti, le vittime ultime della giustizia. L’ampiezza del dolore da loro patito dimostra quanto invasivo possa risultare l’esercizio dell’azione penale, in nome di quel popolo assunto di questi tempi come fattore legittimante di ogni regressione civile.

 

Ci indigniamo se i processi prescritti arrivano al nove per cento e restiamo impassibili se i processi ingiusti superano il cinquanta

Una giustizia che ascoltasse davvero le persone, di cui il popolo è fatto, rispolvererebbe dagli archivi del Palazzo di giustizia di Roma la circolare che lo stesso procuratore Pignatone inviò due anni fa ai suoi sostituti, ammonendoli affinché l’iscrizione di una persona nel registro degli indagati non fosse un atto automatico, rispetto a una denuncia, né tantomeno un atto sempre dovuto, ma presupponesse l’accertamento di “specifici elementi indizianti”. La circolare non sortì nei fatti alcun un effetto pratico, ma smascherò indirettamente, e forse involontariamente, l’ipocrisia di un sistema per metà accusatorio e per metà inquisitorio, che ha nel ruolo del pm il simbolo della sua contraddizione. Le fa eco due anni dopo la denuncia del presidente del Tribunale di Torino. Quando propone l’abolizione dell’udienza preliminare e l’obbligo per i pm di “esercitare l’azione penale solo in presenza di fonti di prova idonee a convincere il giudice della colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio”, l’alto magistrato non fa che invocare un rimedio inquisitorio che rimetta, in capo alla pubblica accusa, la titolarità e insieme la responsabilità di decidere sul processo dell’indagato.

 

Né Pignatone, né Terzi dimostrano di avere la soluzione in tasca per guarire un sistema così confuso e così illiberale, ma l’inadeguatezza dei rimedi da entrambi suggeriti mostra quanto sia difficile pretendere che il pm sia contemporaneamente parte e terzo, sia capace di avviare tempestivamente l’azione penale in nome della sua obbligatorietà e allo stesso tempo valuti con prudenza e senza pregiudizio gli indizi nei confronti dei possibili soggetti da indagare, cercando poi allo stesso modo le prove a loro carico e a loro discarico. E da ultimo li porti a giudizio solo quando sia certo di poter provare la loro colpevolezza. Significa chiedere alla pubblica accusa più di ciò che un magistrato inquirente, per esperto ed equilibrato che sia, possa dare. Significa, ancora, prendere atto che il filtro di terzietà del gip e dell’udienza preliminare è del tutto insufficiente rispetto alla complessità del dramma processuale, e soprattutto personale, che in quella sede si compie. Che poi è la causa per cui a un esercito di innocenti, già passati attraverso il calvario e, spesso, la gogna di due anni di indagini preliminari, viene inflitta la condanna anticipata e aggiuntiva di un processo lungo oltre ogni ragionevole limite.

 

Pignatone chiese che l’iscrizione nel registro degli indagati non fosse un atto automatico, ma basata su “specifici elementi indizianti”

Il fatto che alcuni magistrati giudicanti inizino a denunciare quest’orrore è segno che, timidamente, qualcosa si muove nel sonno consueto di un corpo dello Stato abituatosi a delegare a una minoranza militante la sua rappresentanza. Ma per ribaltare il racconto di una giustizia feroce bisognerebbe avere il coraggio di rimettere in discussione la posizione del pm nell’ordine giudiziario, rispetto alla sua carriera e alle sue funzioni, rafforzare la gerarchizzazione degli uffici delle procure, limitare l’abuso della custodia cautelare, riportare il diritto penale dal reo al reato, tipizzando alcune vaghe fattispecie prive di offensività, cancellare la mostruosa legislazione speciale antimafia fondata sul sospetto e la sua manomorta giudiziaria costruita sulle confische e, da ultimo, ridurre l’invadenza del processo penale nella vita della democrazia, depenalizzando, riducendo i tempi dei processi e aumentando le garanzie della difesa.

 

E’ l’esatto contrario di ciò che si propone di fare il governo gialloverde e la maggioranza che lo sostiene e che ha già approvato, con effetto dal 2020, lo stop alla prescrizione sine die dopo il giudizio di primo grado. Vuol dire negare a quei perseguitati per quattro anni l’unica via d’uscita che restava loro per sottrarsi al calvario. E’ la giustizia dei presunti colpevoli, evocati più volte da magistrati come Pier Camillo Davigo. Si fonda sulla funzione redentrice del pm e sul rafforzamento dei suoi poteri nel processo, sull’aumento delle pene e sulla dilatazione della legislazione speciale. E’ la giustizia capovolta di un paese incattivito, dove perfino la condanna degli innocenti non fa quasi più notizia.

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