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Le “Vespe” di Vespa e Davigo-Filocleone, posseduto dal demone dell'accusa

Guido Vitiello

Aristofane in scena da Floris (ma il popolo-giudice è pure peggio)

Martedì sera, intorno alle nove e mezza, uno squarcio anomalo nella rete del tempo ha fatto sì che gli italiani del 2018 d.C., seduti davanti ai loro televisori, si confondessero per qualche prodigioso istante con gli ateniesi del 422 a.C. convenuti al Teatro di Dioniso per festeggiare le Lenee. E una felice coincidenza onomastica – l’espediente di cui più spesso si serve la poetic justice per eseguire i suoi verdetti, o compiere le sue beffarde nemesi – ha voluto che fosse Bruno Vespa a rimettere in scena le “Vespe”, la commedia di Aristofane sull’ossessione per i processi e sui giudici smaniosi di conficcare il proprio pungiglione nella carne di un imputato purchessia. Nella parte del vecchio Filocleone – “affetto da una malattia stranissima che non verrebbe in mente a nessuno”, la mania dei tribunali, un uomo che “col suo carattere bilioso, vota sempre per la condanna di tutti” – c’era l’imenottero Davigo. Il culmine più lampantemente aristofanesco, lì nel teatro di Floris, c’è stato quando Vespa ha detto che se sua nonna teneva sul comodino il ritratto di Giovanni XXIII e qualcun altro un libro o la foto del figlio, Davigo ci tiene le manette: “Lui si sveglia dicendo: ma oggi a chi tocca?”. Proprio come Filocleone, che la notte non chiude occhio per l’ansia di presentarsi alle udienze, e che “se il gallo canta verso sera, subito lo accusa di essersi fatto corrompere dagli imputati, per svegliarlo in ritardo”. In quel momento, credetemi, mentre tenevo gli occhi fissi sullo schermo, con una mano mi toccavo il petto, per esser certo di aver addosso la mia camicia e non un chitone da antico ateniese.

 

Le “Vespe”, a ben vedere, parla di noi più di quanto non parli di Davigo; perché il bersaglio della satira sono i giudici popolari – per la gran parte diseredati vogliosi di rivalsa o vecchi annoiati in cerca di un passatempo – che nell’Atene di allora amministravano la giustizia, a beneficio dei demagoghi, che li usavano per bastonare i loro avversari politici: s’illudevano di avere un vero potere, ma erano ingranaggi di un collaudato meccanismo persecutorio. E’ il ritratto della gente italiana dell’ultimo quarto di secolo. Ma se Davigo è stato consacrato dai talk show come vespa regina dello sciame, non è solo perché con il resto del pool di Milano diede inizio all’attacco; è soprattutto perché in lui si lascia cogliere con evidenza abbagliante, e si trasmette contagiosamente dietro la maschera della neutralità istituzionale, la passione divorante, il godimento del potere di giudicare: “Su dunque, amici giudici, vespe furiose: colpiteli con rabbia al culo, agli occhi, alle dita, tutt’intorno”, incita Filocleone. Su questa oscura libidine del giudizio scrisse splendide pagine freudiane il filologo Guido Paduano nel suo libro sulle “Vespe” di Aristofane, “Il giudice giudicato”, pubblicato dal Mulino nel 1974, che raccomando come sempre alle vostre mani bucate. La febbricitante mania di Filocleone, posseduto dal demone dell’accusa, suggerisce l’idea di “una violenta passionalità ostile nei confronti degli imputati, di un odio indifferenziato, gratuito, morboso”. Tutto il processo “ha senso solo in quanto si prospetta fin dall’inizio la condanna”.

 

E tuttavia, nel rifacimento andato in scena martedì scorso nel teatro dionisiaco di Floris, continuamente percorso da applausi galvanici, c’è stata un’amara variazione rispetto all’originale aristofanesco che dice tutto dell’Italia del nostro tempo. Nelle “Vespe”, che è commedia di conflitto tra le generazioni, a contrastare le manie giudiziarie di Filocleone è il figlio, che ne avverte il carattere repressivo e s’inventa un espediente per arginarle. Da noi, a togliere momentaneamente a Davigo il suo pungiglione è stato invece un padre, un sopravvissuto della Prima Repubblica, una reliquia vivente della saggezza democristiana. Quanto ai figli e ai nipoti, sono tutti andati a ingrossare lo sciame: “Di’, che aspettiamo a scatenare la nostra collera, come quando qualcuno stuzzica un vespaio? Ora subito tendete il pungiglione acuto, che è la nostra arma”.

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