Il cuoco del popolo
Ottimista, sperimentatore, provocatore. A lezione da Davide Scabin, lo chef che randella il gastro-establishment e cucina per le nonne
Perché la rucola non esiste più nei nostri piatti? Cosa ha determinato la fine repentina delle pennette alla vodka e la comparsa dei fiori edibili anche nell’ultima trattoria di periferia? A questi e altri inquietanti interrogativi risponde Davide Scabin, chef come si vuole stellato, e un po' sempre controcorrente, che si diverte a castigare i costumi culinari degli italiani. Nell’epoca dei cuochi magri e caritatevoli alla Bottura lui beve, fuma, prende multe per ebbrezze, fa debiti, ha fama irrequieta di donnaiolo. Lo raggiungo tra i pullman fumiganti parcheggiati alla stazione di Roma, il suo regno adesso è infatti al primo piano dell’ala mazzoniana della stazione Termini, tra mosaici e avamposti culinari del Mercato Centrale che sollevano il viaggiatore dopo ore di Frecciarossa. Scabin fuma e scalpita col capello argenteo e il fisico da cuoco di una volta: lui ha fatto tutto un po’ prima degli altri, inventato piatti avveniristici e cotture tecnologiche, ha passato tutti gli stadi delle sferizzazioni e adesso sta qua, in stazione, con le nonne.
Ha fatto tutto un po' prima degli altri, inventato piatti avveniristici e cotture tecnologiche, e adesso sta qua, in stazione, con le pensionate
“Nel pranzo inaugurale, dedicato alla stampa, ho imposto che i giornalisti e i blogger si dovessero portare un nonno o una nonna, comunque qualcuno di almeno di 70 anni” (in effetti ero andato a quella colazione, e avevo notato una strana rappresentazione demografica), dice Scabin, 55 anni, sigaretta in bocca. “Il blogger o giornalista trentenne di oggi lasciamolo perdere. Prima mi giudica tua nonna”, dice lui, soddisfatto della vita e della trovata. “Vogliono la cucina della nonna? Eccola”. “Le nonne di oggi sono le ragazze della beat generation, sono quelle che sono uscite di casa e che per la prima volta non hanno voluto stare chiuse a cucinare per i loro mariti”. Spiegato dunque il nome del ristorante. “Son quelle che hanno tirato su i figli con le merendine, quelle che hanno cucinato con la pentola a pressione, coi sofficini”. “Poi dopo è arrivato lo slow food, è venuta fuori tutta la roba del chilometro zero, il contadino, eccetera”, dice, per far capire che insomma la tradizione non esiste, il naturale nemmeno, il cibo è questione di cultura e di moda. “Il futuro è ciò che ci siamo dimenticati”, è la scritta al neon che campeggia sulla cucina. “La tradizione non è una roba che sta lì, una roba vecchia. E’ sempre in movimento. La cucina del 1960 non è così diversa dalla cucina dell’Ottocento. Mi chiedevano: come si mangerà tra vent’anni? Ma io ho dei piatti nella carta che hanno più di vent’anni. Quello che cambia sono le tecnologie. Se hai il gas al posto del fuoco, se hai il frigorifero”.
Poi certo ci sono le mode, appunto. Che lui legge e spiega come uno stilista che tira fuori dagli armadi le cose vintage e le mischia. “A Capodanno abbiamo fatto un cenone anni Ottanta. Menu: Palmito con la salsa tartara. Cocktail di scampi. Surimi. Pennette salmone e vodka. Filetto alla Wellington. E poi un risotto, prova a dire tu”. Alle fragole? “Esatto”. “Un omaggio a una gastronomia scomparsa, di cui ci si vergogna”.
Scabin si diverte a fare il curatore in un mondo culinario in cui è difficile destreggiarsi tra finto antico, tra vero pop e Teomondo Scrofalo e finti Picasso. Un mondo di bolliti non bolliti e i ricordi di una lasagna ormai presenti e imitati soprattutto nelle trattorie di Reggio Calabria e Cantù. Un mondo di piatti barocchetti con nomi “che occupano tre righe, che andavano qualche anno fa, come titoli della Wertmuller; o quelli con l’articolo determinativo davanti, il nostro brasato, il risotto…”. Uno dei suoi piatti si chiama invece “Psyco”, cervo con i fagioli cannellini con cocco, zenzero, lemongrass e coriandolo – “è la storia di un toscano che sposa una cinese e si trasferisce a Bangkok, e sbrocca perché vuole il cervo coi fagioli all’uccelletto, ma il cervo è introvabile in Thailandia”.
“Io però se devo scommettere punto sull’Africa”. E su Roma, che è un po' subsahariana, con una scena gastronomica interessante
Oggi che come nella moda non ci sono più idee forti, si fa insomma il pastiche, come sempre nelle epoche alessandrine, pare di capire. E in tempi di manierismo niente di meglio che guardarsi intorno e usare l’arma dell’ironia. “Mai vista un’omologazione così. E’ il momento in cui si mangia meglio nella storia, su questo non c’è dubbio. Perché le tecnologie sono ormai alla portata di tutti. La carne dura o cotta male non esiste più perché è tutto cucinato a bassa temperatura. Basta avere una macchina sottovuoto e un abbattitore, puoi cucinare il manzo o il cane o la zebra, tutto è morbido, dal Trentino alla Sicilia tutto è soft e di altissima qualità. Ma standard e senza emozione”. Intanto ci mettiamo a mangiare, arriva un camerierino romano non molto emozionato dalla presenza dello chef supremo, porta un vitello tonnato magnifico, un po’ troppo disinvoltamente, lo chef incomincia a grugnire da vero chef di una volta (“perché fai due giri? Quel cucchiaio è troppo grande”. Stritola il pacchetto di sigarette in mano). “La sala è stata uccisa mediaticamente dalla tv”, continua. “Tutti oggi vogliono fare gli chef, sono vent’anni che lo chef è un sex symbol, e nessuno vuol più fare il cameriere. Un tempo su dieci stagisti ne potevo assumere cinque: oggi uno, al massimo due”. Ma tanto l’emozione oggi è guardarlo, il cibo, e postarlo. Scabin non condanna Instagram. “Eravamo già verso una trasformazione della cucina verso l’immagine assoluta. Io ho fatto il mio Cyber eggs nel 1997. Chi se lo inculava Instagram?” (Il Cyber eggs è il suo piatto più famoso, una specie di raviolone di cuki, con caviale e uovo serviti con un bisturi, uno incide e poi succhia questo raviolone di plastica). “Instagram va benissimo, però bisogna educare un po’ i clienti. Mi arrivano le foto coi complimenti sul telefono da qualcuno che è in sala e che vedo che non ha ancora mangiato. Ma complimenti de che? Prima mangia! Bisogna insegnargli che la foto la possono fare, non c’è problema, ma postarla, quello lo possono fare dopo. Sennò mi scende la temperatura del piatto. Invece mi arrivano in cucina i camerieri: ‘Il tavolo tre sta postando! E che due coglioni, bisogna rallentargli la comanda. Invece postano, ricevono le risposte, rispondono alle risposte. Poi mi dicono: ah, era un po’ tiepido. Postate dopo, cristo!”.
Anche i giovani chef non sfuggono alla rampogna scabiniana. Senza rimbrotti da “si stava meglio quando si stava peggio”, però. “Hanno capito tutto, che prima viene la comunicazione e l’immagine, e poi il cibo. Ragazzi che la sera invece di rimanere come facevamo noi escono, magari vanno a farsi un gin tonic nel posto giusto, nel locale figo, e la mattina vanno in palestra. Fanno bene. Anche le condizioni di lavoro della cucina sono migliorate molto, anche gli orari”. Un benessere che si riflette nel piatto: “Aspettiamo qualcuno che non abbia paura di sbagliare”.
Scabin è visto con timore nel mondo dell’alta cucina che pare abbastanza monolitico. Ogni tanto si affaccia “al congresso”, cioè alla Davos dei cuochi, Identità Golose, e crea scompiglio. Come nel 2010, quando si presentò con un sifone in mano, dicendo di aver trovato “quello strano oggetto che nessuno usa più, e che gli archeologi sostengono fosse usato in cucina”. Il riferimento è “alla bolla iberica”, dice Scabin, dove per “bolla” non capisco se intende isteria collettiva (tipo bolla immobiliare) oppure proprio bubble. “Ah, ma dobbiamo partire proprio da zero”, sbuffa lo chef fumigante, per spiegarmi un po’ di basi di storia della cucina. Magari. “La grande abbuffata degli addensanti, quella che voi giornalisti chiamate cucina molecolare. Una stronzata. Sai quand’è nato il primo chef molecolare?”. Dica chef. “Quattro milioni di anni fa”, ruggisce, “quando ha visto il fuoco che ardeva e si è messo ad arrostire gli alimenti. Tutta la cucina è molecolare. Prendi un uovo, se è crudo, alla coque o sodo ha tre variazioni molecolari diverse!”. (Ancora un uovo. Scabin sembra ossessionato dall’uovo, cucina su degli strani barbecue a forma di uovo verdi; forse perché simbolo di perfezione matematica tipo Luca Pacioli, e lui quello voleva studiare, “sono ossessionato dalla matematica”, salvo che sua mamma, che era molto Beat, gli ha detto “impara un mestiere, poi se vuoi andare avanti a studiare vedi tu”. Tra le sue invenzioni ci sono pasticconi per salare scientificamente i cibi, sistemi di cottura della pasta per infusione, equazioni [- C = Tr² su tec+Tec cioè cucina è uguale alla tradizione al quadrato sulla somma di tecnica più tecnologia], il “quadraling” cioè l’ordine con cui i sapori entrano in bocca…).
“È il momento in cui si mangia meglio nella storia, su questo non c’è dubbio. Perché le tecnologie sono ormai alla portata di tutti”
Torniamo alla bolla iberica. “Partiamo dalle origini. La nouvelle cuisine ha creato una divisione tra tradizionalisti e innovatori, e in mezzo a questa crepa si sono infilati gli spagnoli. Noi intanto, coglioni, siamo rimasti a guardare”. La bolla iberica, alla fine, è la cricca di Ferran Adrià, fondatore del ristorante El Bulli, cioè principale istigatore dell’utilizzo di “xantana, degli alginati, gli addensanti, la carragenina. Additivi chimici che si usano nella grande industria e che Adrià ha utilizzato per fare le schiume, le sferizzazioni”. “A un certo punto, la bolla iberica è scoppiata”. Cambiamento del gusto? “No, son proprio arrivati i Nas”. “E tutti son corsi a buttare i loro addensanti nel water”. Anche Bottura usava gli addensanti? “Anche lui, certo”. Anche lei? “Mah, sì, qualche volta, il minimo, che c’entra. È una purga!”. Nel senso che c’è stata un’epurazione? “No, nel senso che vai proprio al cesso. In piccole dosi no, ma se fai una degustazione da quindici piatti, tu hai speso trecento euro per andare al cesso. Una purga di lusso ma pur sempre una purga”.
Dalla purga però nascono i fiori. “A un certo punto dopo lo scoppio della bolla iberica nessuno faceva più una gelatina, e salta fuori la bolla del nord. Ecco Redzepi! Fiori. Germogli. La naturalizzazione. Le insalate. Il foraging”. Il riferimento per noi tapini è il ristorante Noma di Copenhagen che per quattro volte è stato considerato miglior ristorante del mondo nella famigerata guida che oggi sposta gli equilibri palatali globali, la World’s 50 Best. “Salta fuori tutta l’epopea del Nord. I licheni. Il raw, il crudo. Piatti con due banane, una carota, una rapa, due pesci puzzolenti seccati. Sono stati dei geni. Mio nonno i licheni me li faceva prendere per fare il presepio, a Natale”. “Geni della comunicazione. La città di Copenhagen ha speso un sacco di soldi in comunicazione per lanciare tutta questa cosa”. “Che poi la chiamano cucina a chilometro zero ma son quattro stati: Danimarca, Svezia, Norvegia, Finlandia, cioè pesci e licheni che si fanno centinaia di chilometri, mah”.
Scabin per non saper né leggere né scrivere ha messo fuori la targa ‘primo ristorante de-germoglizzato’. “Non se ne può più di fiori e germogli, che magari oggi ti trovi sul vitello tonnato, o sui tortellini”. Dopo l’epopea del germoglio, altra fase, è arrivato “il sud-est asiatico con le fermentazioni. Kimchi dappertutto. Ma mio nonno mi ha insegnato che la roba fermentata non si dà neanche ai maiali, altrimenti la carne non vien buona”. Sempre questo nonno. Starei ore ad ascoltare la storia della gastronomia secondo il nonno di Scabin, ma la lezione è finita, ora c’è geografia. “Gli Stati Uniti non ce la fanno a imporsi nelle classifiche. Il sud America ci ha provato 4-5 anni fa. Alex Atala in Brasile, poi il Perù con Gaston Acurio che fa il Ferran Adrià de’ noantri, poi Virgilio Martinez del Central a Lima” (mi spiega anche con foga e dando per scontato che io sia preparatissimo tutta una lettura politica di coalizioni di paesi sudamericani per avere più peso nella famigerata guida globalista, alleanze, cambiamenti di sistemi di voto, ma mi perdo. Mi sento Fantozzi quando il compagno Folagra cerca di istruirlo sul comunismo, “non so se mi spiego, porco giuda!”). “Adesso ci sono cose interessanti in Colombia. L’Australia stava cercando di venire fuori, loro hanno una grande libertà, non avendo nessun background, possono mettere insieme rane, coca-cola e coccodrillo. Io però se devo scommettere punto sull’Africa”.
E su Roma, che ultimamente è un po’ subsahariana (infatti la scena gastronomica è sempre più interessante). Questa romana è la sua ultima incarnazione. Scabin a un certo punto è stato privato della seconda stella Michelin, che nella morfologia della fiaba dei grandi cuochi è sempre il momento della caduta – disperazione, rabbia, poi ci si riprende più forti che pria; nel 2011 dette l’addio alle scene, col ritiro, al congresso di Identità Golose, con una provocatoria “spaghetti pizza margherita, quando nessuno voleva la pasta, se avevi una pasta in carta eri un terrone, un emigrante con la valigia di cartone”. Poi naturalmente è tornato, ed eccolo qua. Adesso scruta l’orizzonte per vedere che succederà, da questa tolda sospesa su trapizzini e turisti. Magari la novità arriva dal treno.
La bolla iberica: “Sono purghe!”, e poi quella del nord: “I licheni, il raw, piatti con due banane, una carota e pesci puzzolenti seccati”
Lo Scabeat è “un format pop, ma pop davvero”. Cioè quanto si spende? “Attualmente il conto medio è di ventidue euro. Troppo poco, in effetti dobbiamo alzarlo un po’”. “Ma lanceremo un pranzo a 12 euro”. Come fate? Sofficini per tutti? “Ci riesco perché faccio 120 coperti. Se fai grandi numeri puoi tenere alta la qualità. Che poi non è difficile. Usare una farina da 1 euro al chilo o una da 5 non è così diverso. Fare un tramezzino buono e un tramezzino cattivo costano uguale. E poi cosa credi? Nei grandi ristoranti che ti vendono un piatto a 40 euro, cosa credi che ci sia dentro? Certo, nel menù c’è scritto pane di pasta madre di vattelapesca, in tavola ti danno l’olio da cento euro, ma in cucina è tutta roba della Metro”. La cucina è “piemontesca”, “cinquanta per cento piemontese e cinquanta per cento romana”, dice Scabin, secondo cui “il romano bisogna conquistarlo. Il romano non è come il milanese, che se fai comunicazione, se metti su il locale figo ci casca. Il romano vuole sostanza”, dice. Chissà se a Milano dirà il contrario. “Io sarò contento quando mi diranno: a Scabì, sei proprio un gran fijo de na mignotta. Cioè li devi far rosicare abbastanza finché son costretti a dirti che sei bravo, i romani”. “Conquistare il romano è come corteggiare una donna. Se fai troppo il figo rischi che scappa. Se sei troppo timido, ti becchi quella con la sindrome della mamma”. Lui per sicurezza adesso punta direttamente sulle nonne.