Pupi Avati (foto LaPresse)

Ritorno a Satana

Andrea Minuz

A casa di Pupi Avati, che riscopre l’horror perché è pericoloso rimuovere il diavolo dal nostro immaginario

Dei teli di plastica trasparente sopra una grande libreria in noce gettano un’ombra spettrale nella stanza. “Li abbiamo dovuti mettere per le termiti”, mi spiega subito Pupi Avati accompagnandomi in salone, “se la stavano mangiando tutta”. Siamo già dentro un suo film, la luce del primo pomeriggio romano che si fa sinistra, gli scricchiolii del legno, i quadri antichi alle pareti, un thriller gotico ambientato in questo vecchio palazzo di via del Babuino, epicentro del cinema italiano quando il cinema italiano era tutto tra “Rosati” a piazza del Popolo e “Otello” in via della Croce, la trattoria che ha nutrito un’intera generazione di registi e sceneggiatori. “Qui dietro, a via Margutta, abitava Fellini, invece proprio qua, al piano di sopra, viveva Monicelli”. Oggi chi fa il cinema abita all’Esquilino, a piazza Vittorio, a Monteverde Vecchio. Se “opera prima” presentata alla Settimana della critica o documentario in crowdfunding, in un loft al Pigneto. Pupi Avati appare in ottima forma. Oltre cinquanta film realizzati con la “Duea Film”, la casa di produzione che gestisce insieme al fratello Antonio, quaranta regie, sceneggiature, romanzi, tanta televisione, nessuna intenzione di mettersi a riposo. “Quando ho compiuto ottant’anni ho scritto l’elenco dei film che voglio fare”. Per esempio? “Per esempio, la vita di Dante Alighieri raccontata da Boccaccio, ma deve essere un film, non una fiction”. Si immaginano subito cose tremende, tipo Favino con l’alloro in testa, ma ci tranquillizza immediatamente: “No, no, Dante non lo farebbe nessuno, non si vedrebbe, il racconto di Boccaccio è una specie di indagine in cui si ricostruisce la vita di Dante a partire dalle persone che lo avevano conosciuto; il modello è il film di Rosi su Salvatore Giuliano, Boccaccio però lo farei fare a Al Pacino”.

 

Gli scricchiolii del legno, i quadri antichi alle pareti: nel vecchio palazzo di via del Babuino siamo già dentro a un suo film

Chissà. Intanto quest’estate uscirà in sala “Il Signor Diavolo, horror padano che scaturisce direttamente da “La casa dalle finestre che ridono”, film di culto degli anni Settanta, ancora oggi celebrato dai fanatici del genere: “Ogni tanto spuntano dei ragazzini che mi chiedono un autografo sul dvd, non so come sia possibile”. “Il Signor Diavolo” sarà tra i titoli di punta di “Moviement”, l’iniziativa presentata con gran strombazzamento e spillette al petto agli ultimi David di Donatello; anziché andarsene in ferie da giugno a ottobre, il cinema italiano prova finalmente ad allungare la distribuzione su tutto l’arco dell’anno. In America, si sa, l’horror estivo è un grande classico almeno dai tempi dello “Squalo” di Spielberg, da noi invece si è rimasti bloccati all’Italia degli anni Sessanta, con le ferie, la villeggiatura, tre mesi di vacanze, anche se restiamo tutti in città e insieme ai supermercati i cinema sono gli unici posti con l’aria condizionata decente. “Aprirsi all’estate dopo una stagione invernale così disastrosa per i film italiani è comunque molto rischioso e non ho davvero idea di come possa andare questa cosa; ormai non credo più alla capacità strategica di nessuno, non solo nel cinema, dove com’è noto è difficile fare previsioni, ma in tutti gli ambiti, a cominciare dall’economia, specie quella che ti spiegano gli esperti in tv”.

 

Anche Pupi Avati ce l’ha coi talk-show. “In Italia ci vorrebbe un partito che raduni tutti gli ospiti dei talk-show, hanno le idee chiare su tutto e incarnano tutte le tipologie di italiano, li facciamo tutti ministri, io poi sono lombrosiano, saprei bene come collocarli, solo che non accetterebbero mai, vuoi mettere il privilegio di fare l’opinionista per professione? E poi il problema è più ampio: hai notato che nessuno domanda più ‘che lavoro fai?’ Ora si dice solo, ‘di cosa ti occupi?’ Nessuno fa più qualcosa, tutti si occupano di qualcosa”. Per tacere della valanga di “sostanzialmente” che si infilano sempre e ovunque nel discorso, sintomo implacabile della fuffa che tutto avvolge, una patina di incertezza permanente sulle cose, i fatti, i ragionamenti, come la plastica sulla libreria minacciata dai tarli. Ma non divaghiamo. Siamo qui per parlare di cinema, di Italia, della sua lunga carriera.

 

Quando ho compiuto ottant’anni ho scritto l’elenco dei film che voglio fare… per esempio la vita di Dante raccontata da Boccaccio

“Il cinema che ho cominciato a fare io era un gioco d’azzardo; c’erano le cambiali, una creatività che non significava sempre buoni film, ovvio, ma voleva dire tanta ambizione, che è una cosa fondamentale in questo lavoro. Perché questo è un lavoro in cui l’insuccesso pesa molto di più del successo; io e mio fratello, per esempio, saremo ricordati perché siamo riusciti a fare l’unico film di Benigni che non ha incassato una lira (“Berlinguer ti voglio bene”). Però il rischio è tutto. Io ho visto Carlo Ponti firmare un assegno da sessanta milioni per fare due film con Giovanna Ralli, soldi suoi, non del ministero; in quegli anni i produttori si preparavano il discorso per gli Oscar, volevano fare soldi ma volevano fare anche il grande film; c’era il rischio d’impresa, questa cosa non accade più, il film oggi parte solo se è già coperto prima, ricavo compreso. E’ chiaro, siamo in un’altra epoca, è tutto diverso, gli spettatori sono diminuiti. Però togliere il rischio di impresa fa crollare l’ambizione. Molti film si fanno più che altro per riempire i palinsesti televisivi e raccogliere pubblicità, non per il pubblico”.

 

Il cinema italiano si tiene in vita grazie alla Rai, primo soggetto finanziatore di tutta l’industria, lo stesso che però poi chiude Rai Movie. Difficile venirne a campo in tempi brevi. Meglio le serie? “‘Gomorra’, ‘Suburra’, sono tecnicamente fatte bene ma non so quanto potrà durare il fenomeno, anzi mi pare vicino alla saturazione; parlo in generale, anche per le serie americane; ‘True Detective’ è un capolavoro, ma a questo ritmo è difficile evitare di ripetersi, esaurire le idee; le serie mi sembrano già entrate in una fase molto ripetitiva”.

 

Però le serie sono il nuovo campo da gioco per chi fa questo mestiere e anche Pupi Avati ha un progetto in cantiere da tempo per Sky, si intitola “Floating Coffins”, ecco la prima scena: “Alluvione in Polesine, 1951. Tutti i cimiteri sono stati allagati, le bare sono disperse; i parenti dei defunti vanno in giro tra i corsi d’acqua a cercare le bare che, piano piano, riemergono a galla. Alla fine, vengono su tutte, tranne quelle di due fratelli. Si parte da qui e da una serie di delitti che ruotano attorno alla catastrofe del Polesine”. C’è la cultura contadina, l’Italia povera e rabbiosa del dopoguerra, il polesine come le paludi della Louisiana di “True Detective”. “La chiave è questa: pensare prodotti radicati nell’identità italiana ma scritti con una mentalità internazionale, per esempio dentro i meccanismi di genere”.

 

I peccati. “Sono molto invidioso ed egoista. Ancora oggi sogno di tornare a Bologna e suonare il clarinetto meglio di Lucio Dalla”

E’ quello che prova a fare con “Il Signor Diavolo”, una vicenda che affonda dentro luoghi mitici della cultura italiana: il delta padano, il Veneto cattolicissimo del dopoguerra, la Dc alle prese con gli esorcismi, un’Italia che facciamo fatica a ricordare, anche se poi a Sanremo Salvini se la prende con Satana invocato da Virginia Raffaele. “La cultura contadina è sempre stata disponibile al fantastico, alla superstizione, al meraviglioso, le nostre radici sono lì; sono tutte cose che hanno a che fare col cinema, perché il cinema dovrebbe raccontare quello che non c’è, non quello che c’è. Quando raccontavamo l’Italia del dopoguerra raccontavamo quello che c’era, ma quello che c’era era davvero eccezionale, poi siamo rimasti inchiodati al dato di realtà, peggio ancora al messaggio. Io invece ho capito che avrei voluto fare questo lavoro quando ho visto ‘Otto e mezzo’ di Fellini, dove tutto si gioca sul piano del possibile, del fantastico; non a caso Fellini era la quintessenza del mondo contadino. Quando andavamo a prendere mia madre e Giulietta Masina alla chiesa di via del Corso lui la aspettava sempre fuori, aveva quei pudori tipici della cultura contadina, l’uomo che si veste a festa, con la camicia bianca ben abbottonata, e se ne sta lì, sull’uscio della chiesa ad aspettare la moglie. In ‘Otto e mezzo’ c’è il cinema. Non so bene cosa significhi, non so come spiegare questa cosa, ma so quando in un film c’è il cinema oppure no. C’è cinema in ogni fotogramma di Hitchcock, c’è cinema in John Ford, in Spielberg. Cinema è anche un certo modo di dirigere gli attori. Clint Eastwood mi invitò sul set di ‘I ponti di Madison County’, si girava a Winterset, il paese dove è nato John Wayne e dove il padre faceva il farmacista; ecco: quel modo di lavorare con gli attori, quella sotto-recitazione lì è cinema”.

 

Il mondo contadino e la cultura cattolica erano, dice Pupi Avati, un viatico formidabile per la creatività: “Niente eccita l’immaginazione come la paura; mi hanno cresciuto nella paura, ricordo i pulpiti, i parroci di campagna cattivissimi; conoscevo la distinzione tra peccato veniale e mortale, oggi chi se la ricorda più? Ora i confessionali sono murati o vuoti, ma il vero problema è il deficit di spiritualità interno alla chiesa, non fuori. Nelle omelie i preti non parlano più dei temi centrali della vita, il diavolo non si può neanche nominare se non come favoletta; il cattolicesimo è diventato compatibile con tante di quelle cose che ha smarrito la sua funzione. Che i cattolici oggi non contino niente l’ho sperimentato anche su me stesso: fino a qualche anno fa ero un autore corteggiato dal mondo cattolico, ora non più, non c’è un’area cattolica che lavora per cooptazione. Il punto non è la scomparsa dei cattolici in politica o nello spazio pubblico, ma il tracollo della spiritualità, il relativismo assoluto”.

 

Il mondo contadino e la cultura cattolica come viatico per la creatività. I confessionali vuoti, oggi, e il tracollo della spiritualità

Si finisce, com’è inevitabile, sull’ultimo Ratzinger. “Certo che c’entra il ’68. Io credevo di non averlo fatto il ’68, invece i miei primi film sono pieni di ’68, spero tu non li veda”. Eppure, c’era già il diavolo nei titoli, “Balsamus, l’uomo di Satana” (1968), “Thomas e gli indemoniati” del 1970. “La filosofia in voga era quella dell’Opera Aperta di Eco, il fruitore che raccoglie la provocazione dell’autore e a modo suo la completa; siamo stati così bravi a metterla in pratica che in pochi anni abbiamo vuotato i cinema. Quando davano i nostri film ci mettevamo in sala a guardare le reazioni del pubblico; se gli spettatori se ne andavano eravamo contenti e tra di noi sgomitavamo: guarda come li abbiamo scandalizzati; vinceva chi faceva uscire più gente dal cinema”.

Pupi Avati ha lavorato anche alla sceneggiatura del “Salò” di Pasolini. “Frequentavo la terrazza di Laura Betti, Moravia, Pasolini, Enzo Siciliano, Marco Bellocchio. Era un mondo seducente. Al di là delle pose, quella era gente autorevole, che intimoriva. Al mattino però mi rendevo conto che parlavo esattamente come loro, ripetevo le cose a pappagallo, non ero io, quel mondo non aveva molto a che fare con me”.

 

Nel 1976 fa un film bizzarro. Si intitola “Bordella”. L’American Love Company, oscura società messa in piedi da Kissinger, apre dei bordelli per donne a Milano; i prostituti come tecnica di manipolazione di massa e propaganda americana. Uno scherzo fantapolitico da guerra fredda, abbastanza folle persino allora, molto attuale nell’epoca del complottismo di massa. Ma perché a Milano? “Era ambientato a Milano perché se vuoi colonizzare l’Italia cominci sempre da Milano. Il film poi uscì al Rivoli, a Roma, la sera della prima era strapieno di gente, ma fu sequestrato subito. Avevamo usato spezzoni con Kissinger e Nixon, fui denunciato dall’Ambasciata americana; poi fummo processati e condannati per oscenità dal tribunale di Latina. Io, Maurizio Costanzo che aveva scritto la sceneggiatura, Carlo Gravina, Christian De Sica”. De Sica, all’epoca venticinquenne, era il protagonista del film. “Un attore fantastico, bravissimo, uno che ha gestito la carriera in modo troppo prudente, anche per colpa di un cinema che non ha saputo usarlo fuori dalla macchietta”.

 

 

 

Tornare al cinema di genere, al film horror, per raccontare quanto sia pericoloso aver rimosso Satana dal nostro immaginario è una cosa che gli stava a cuore da tempo. “Il diavolo fa il male per il male, ma certo è più comodo sbarazzarci di quest’idea. All’epoca di Giovanni Paolo II, decisi di andarmi a confessare a San Pietro. Si diceva che a volte poteva anche capitare che a confessarti ci fosse lui. Cercai un confessionale appartato, invece del Papa trovai un prete irlandese. Parlai dei miei peccati cronici e quello mi disse di andare da uno psicanalista. Non mi confessai più. Lì capii che ormai non ci credevano più neanche loro. Come molte altre cose, anche l’intermediazione del sacerdote è praticamente scomparsa”. Vabbe’, ma quali erano questi peccati cronici? “Sono molto invidioso, invidioso e egoista; agli altri posso dare molto, ma solo se avanza a me; però il vero problema è l’invidia. Ancora oggi sogno di tornare a Bologna e suonare il clarinetto meglio di Lucio Dalla, che mi rubò il posto nella band in cui suonavo, spezzando per sempre il mio sogno più grande che era quello di fare il musicista. Se tu mi dici: preferisci vincere l’Oscar o tornare in cantina a Bologna e suonare il clarinetto davanti a Lucio Dalla con lui che si alza in piedi e mi applaude, io scelgo senza dubbio la seconda. Però a suo modo l’invidia è anche un grande carburante. Infondo, tutto quello che ho fatto nel cinema è scaturito da quella grande delusione”.

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