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Perché chiudere Rai Movie fa male alla Rai

Andrea Minuz

Finanzia, produce e promuove il cinema italiano. Eppure la tv pubblica chiude lo spazio dedicato ai film. Elogio di un canale destinato a essere “riposizionato”

Il governo piange la scomparsa di Massimo Bordin ma non rinnova la convenzione a Radio Radicale. La Rai finanzia, produce e come da statuto promuove il cinema italiano ma nel frattempo chiude Rai Movie. Problemi diversi, acrobazie simili. Parliamo del canale tematico che trasmette film ventiquattr’ore su ventiquattro, punto di riferimento “in chiaro” dei telespettatori in fuga da talent e reality, un sicuro rifugio generalista per chi preferisce rivedersi uno “007” qualsiasi con Sean Connery o Roger Moore pur di non finire tra le braccia di Salvini o Di Maio da Floris. A proposito di Radio Radicale, un noto ultraliberista come Marco Travaglio ha detto che “se non ha abbastanza ascoltatori è giusto che venga chiusa”. Sull’intricato caso Rai Movie si aggiusta invece il tiro spiegando che non si tratta di chiusura, il canale verrà “riposizionato” in base ai profili derivati dalle rilevazioni d’ascolto. “L’offerta di cinema sarà sparpagliata in tutti i palinsesti Rai, quindi potenziata”, ha spiegato Salvatore Margiotta (Pd), membro della commissione di Vigilanza; che è un po’ come lasciare vostra moglie spiegandole che state solo “riposizionando” il rapporto sulle nuove esigenze dei profili. Il caso Rai Movie è stato subito preso in carico dall’indignazione collettiva: la petizione su change.org è già arrivata a centomila firme o quasi, Aldo Grasso ha scritto una lettera aperta all’amministratore delegato della Rai, Alessandro Borghi ha twittato, Alessandro Gassman ha lanciato l’appello, poi è intervenuto l’Usigrai, poi è spuntata la pista “gender”, cioè la riconversione in un “canale al femminile”, quindi giù altre polemiche a non finire, secondo il più classico degli schemi cui siamo ormai abituati. Il gioco delle parti confonde tutto e non aiuta a capire granché. Quella di Rai Movie resta una vicenda a suo modo emblematica dello scollamento tra esigenze della politica, del servizio pubblico e dei telespettatori col canone in bolletta; c’entrano le logiche editoriali della Rai nell’epoca dello streaming, le nostre vecchie abitudini e le nuove forme di consumo, c’entrano i controversi rapporti tra il cinema e lo Stato, ovvero il peso che il cinema italiano ha o dovrebbe avere nella Rai e nel sistema audiovisivo italiano.

      


Trasmette film ventiquattr’ore su ventiquattro, punto di riferimento “in chiaro” dei telespettatori in fuga da talent e reality, rifugio generalista


      

Qualche passo indietro. Il “riposizionamento” di Rai Movie è figlio del piano industriale 2019-2021 approvato a maggioranza all’inizio di marzo, quello che “colmerà il gap digitale” e “rivoluzionerà la Rai in senso orizzontale” sul modello del servizio pubblico francese. Che vuol dire? Significa che la Rai si dota di nove direzioni tematiche che taglieranno in modo trasversale i palinsesti delle tre reti principali. Si lavora quindi per “contenuti” trasferendo gran parte del potere decisionale dagli attuali direttori di rete ai responsabili dei centri di produzione (dal punto di vista industriale vuol dire “razionalizzazione”, da quello politico, “tenersi direttori sgraditi mettendoli nelle condizioni di non nuocere”). Per esempio, la direzione dei contenuti “talk” coprirà tutte le reti, così il responsabile dei contenuti diventa una figura chiave, un po’ come il super-preside nella scuola di Renzi. C’è poi il fantomatico canale in inglese con taglio didattico alla maestro Manzi, “Unit One, Lesson Two”, che finalmente ci renderà tutti “fluent”, com’è scritto sul nostro curriculum, e che verrà messo sotto la tutela di Rai Com. Se ne aggiungerà un altro di taglio “istituzionale” che, nel linguaggio di viale Mazzini, “mira ad avvicinare cittadini e istituzioni e a promuovere la conoscenza delle stesse tramite un palinsesto dedicato”. Sfuma invece il progetto della “Newsroom unica”, cavallo di battaglia del vecchio piano Verdelli. Un’opera di razionalizzazione che resta al momento impraticabile perché, si capisce, i contenuti si possono accorpare, i giornalisti no.

     


Film sparpagliati senza logica nel palinsesto. La cifra nazional-popolare del cinema italiano si è costruita in televisione, non in sala


       

Il piano di ristrutturazione è stato affidato alla società, “Boston Consulting Group”, multinazionale che opera nel settore della “consulenza strategica” con un fatturato annuo che supera i sei miliardi di dollari. Pare sia costato alla Rai un milione di euro, altre fonti lo attestano sui cinquecentomila euro (difficile stabilirlo, si tratta di una procedura di gara ristretta indetta dal Cda). Meno difficile immaginare quanto “Boston Consulting Group” possa avere a cuore le sorti del cinema italiano in tv. Come sempre succede in questi casi, tagli e accorpamenti mirano tutti alla “ottimizzazione dei costi”, ma alcuni costi sono più ottimizzati di altri. Saltano quindi Rai Movie e Rai Premium (chiude anche il canale dedicato alle fiction di repertorio, anche se non se lo fila nessuno), resta invece Rai 5, canale nato per diventare l’organo ufficiale di Expo 2015, poi riposizionato su arte e cultura, ma soprattutto votato alla diretta della prima alla Scala dai tempi della “Valchiria” di Barenboim e Cassiers, allestita nel 2010. Rete vicina alle alte cariche dello stato, emblema di un’idea di cultura istituzionale, da alta rappresentanza, con fascia tricolore e inno di Mameli, Rai 5 può contare su un budget annuale di dieci milioni di euro, contro i cinquecento mila di Rai Movie. Quest’ultima, d’altronde, vive quasi esclusivamente della propria library, mentre Rai 5 si assembla con documentari acquistati all’estero, senza tenere conto del costo delle dirette alla Scala, con le telecamere nel backstage dietro le quinte per mostrare i cambi di scena. Non c’è dubbio che l’“Attila” diretto da Riccardo Chailly e David Livermore con Mattarella che dice “la musica e la cultura sono l’ultimo baluardo della democrazia” sia ottimo “servizio pubblico”, ma da tre anni l’evento è trasmesso in diretta anche su RaiUno, dimostrando quindi che è possibile ottenere ascolti soddisfacenti e rendere popolare uno spettacolo culturalmente elevato (la diretta dalla Scala era nata sul canale tematico proprio per evitare di “bucare” una prima serata Rai). Perché il cinema si può sparpagliare e l’arte e la lirica no? Forse “Boston Consulting Group” si muove secondo logiche crociano-idealistiche che scaturiscono dalla più severa gerarchia piramidale tra le arti, o forse nella storia della Rai i più nobili piani di riqualificazione sono appesi al passo incerto della politica e dei governi che si danno il cambio. La meta resta irraggiungibile ma, nel frattempo, nella lunga traversata, capita che si lasci sul terreno qualche cadavere.

    

Nato come canale a pagamento nei primi, turbolenti anni della pay-tv italiana, Rai Movie ha assunto la configurazione attuale a partire dal 2010, quando il vecchio canale Rai Sat Cinema è passato in chiaro sul digitale terrestre. Nell’ultimo anno, lo share medio è stato dell’1,2 per cento (dato che si conferma anche d’estate, come capita ai canali con un’alta fidelizzazione di pubblico). Il canale conta su una ventina di collaboratori che si dedicano alla costruzione di un palinsesto cinematografico ormai sempre più raro nell’offerta generalista. C’è il “lunedì western”, poi sconfinato nel recente ciclo “Sergio Leone” (quest’anno cadeva il doppio anniversario, novant’anni dalla nascita, trenta dalla morte, ma se ne sono accorti solo a Rai Movie); ci sono le rassegne tematiche, le comiche di Stanlio e Olio tutti i giorni alle 20 in controprogrammazione con Antonio Maria Rinaldi ospite fisso da Barbara Palombelli; si valorizza l’archivio (vecchi filmati con Gian Luigi Rondi che intervista Bergman e Fellini), ci si lancia in preziose ricostruzioni filologiche che mandano in estasi i cinephile, come la versione director’s cut di “I cancelli del cielo”, film maledetto di Michael Cimino, risincronizzato frase per frase con un nuovo audio italiano da Alberto Farina, infaticabile consulente del canale e principale divulgatore dei suoi contenuti. Non si tratta quindi solo di far vedere il cinema nella tv del servizio pubblico. Tantomeno di “potenziarlo” spalmandolo a caso sui palinsesti. Il punto è inserire il film in un discorso più organico e, ci si passi il termine, “identitario”. Rai Movie è anche un “simbolo”, come scrive anche Aldo Grasso nella sua lettera, un “brand” con una sua riconoscibilità immediata costruita in pochi anni ma già ben definita. Quando scegliamo di vedere un film su Rai Movie non scegliamo solo il film ma il canale, ed è la cornice del canale a connotare la nostra visione, valorizzandola o differenziandola rispetto ad altre opzioni. “Il buono, il brutto, il cattivo” potrei vederlo su Amazon Prime, ho persino il dvd, però finisce sempre che lo rivedo su Rai Movie, nel ciclo dedicato a Sergio Leone, anche perché scatta un “effetto comunità” che la televisione è in grado di restituire, specie se inizio a scambiare le battute del film con qualcuno su Twitter. Per la stessa ragione, raramente vedremo “Don Matteo” su Netflix, mentre su Rai Uno sbaraglia com’è noto lo share.

         


La Rai ora si dota di nove direzioni tematiche che taglieranno in modo trasversale i palinsesti delle tre reti principali


       

Il caso Rai Movie fotografa poi anche un altro paradosso. Da almeno trent’anni, il cinema italiano dipende dagli aiuti di stato e, in misura sempre maggiore, dalla televisione generalista, cioè dall’acquisizione dei diritti di messa in onda dei film. La Rai è quindi anche il primo produttore di cinema italiano, soprattutto film d’autore e/o drammatici, ovvero di “interesse culturale”, secondo una logica che si definisce “verticale”: Rai Cinema investe nella produzione nel film, 01 Distribution (Rai) lo vende nelle sale, la Rai lo trasmette poi in tv. Solo che qui il meccanismo si inceppa. I passaggi televisivi sono decisivi nella valorizzazione commerciale e culturale di un film, ma la Rai stenta a mostrare in tv i film che essa stessa produce. I motivi sono almeno due. Da un lato, la Rai produce film perché “deve farlo”, cioè non sempre si investe nella validità del progetto; di conseguenza non ha alcun interesse a imporlo ai suoi spettatori, tantomeno a scapito di format consolidati. Dall’altro, i film italiani in tv non vanno bene (anche perché gran parte del cinema italiano di interesse culturale non è pensato né per un pubblico, tantomeno per la televisione). I film finiscono così nelle soffitte dei palinsesti, alle due o alle tre del mattino, nello spazio un tempo affidato al biliardo. Come scrivono Luca Barra e Paolo Noto in un intervento pubblicato sulla rivista Il Mulino, Rai Movie potrebbe invece essere un tassello essenziale del sistema, “fatto di obblighi di programmazione da rispettare (le quote, europee e italiane, di opere audiovisive da mandare in onda), di grandi accordi quadro con i distributori, di sostegno a una cultura cinematografica, ma pure di sbocco obbligato per quei titoli che non hanno spazio altrove”. Mentre Mediaset ha un canale dedicato al cinema (Iris) che valorizza le sue produzioni (Medusa) pensate per avere successo sia in sala che in televisione, il servizio pubblico sparpaglia i film nel suo palinsesto, senza alcuna logica di valorizzazione, né commerciale, né culturale.

         


La Rai stenta a mostrare i film che essa stessa produce: finiscono nelle soffitte dei palinsesti, nello spazio un tempo affidato al biliardo


     

Infine, c’è un tema culturale più ampio. Su Netflix i film italiani realizzati prima del Duemila praticamente non esistono. Se oggi è difficile trovare qualcuno sotto i vent’anni (iscritti al Dams inclusi) che abbia visto due film di Fellini, Germi, Scola o Monicelli non è per colpa di internet o delle serie o degli Avengers, ma perché a un certo punto la funzione di trasmissione del cinema italiano da una generazione all’altra si è bruscamente interrotta. La cifra nazional-popolare del cinema italiano si è costruita in televisione, non in sala. Come tutti i nati negli anni Settanta sono cresciuto con i vhs dell’Unità di Veltroni ma ancora di più con il “lunedì film” annunciato dalla sigla di Lucio Dalla, col cinema americano sui “Bellissimi” di Rete4, con quello d’autore celebrato a notte fonda come in un rito misterico su RaiTre. Non è una rivendicazione romantica (che da qui a rimpiangere lo sceneggiato in bianco e nero il passo è breve), ma nell’epoca dell’algoritmo, la scelta mirata, targettizzata, cucita su misura del consumatore, può di fatto rovesciarsi anche in un’offerta meno ricca, di sicuro meno disponibile alla scoperta, rispetto a quella della vecchia tv generalista. Anche per questo, nell’epoca delle piattaforme on-demand, un canale come Rai Movie ha ancora senso e andrebbe valorizzato. Proprio come Radio Radicale.

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