Il Partito Radicale deposita alla Camera le firme per l'eutanasia legale (foto LaPresse)

La Consulta ha deciso: l'aiuto al suicidio non è reato

Redazione

Depositata l'ordinanza con cui la Corte costituzionale ha rinviato di un anno la decisione sul caso del Dj Fabo. Il testo, però, indica chiaramente la strada che il Parlamento dovrebbe percorrere: il malato può decidere come morire

Era già abbastanza chiaro lo scorso 24 ottobre quando la Corte Costituzionale aveva deciso di non esprimersi e di rinviare di un anno la decisione sulla costituzionalità dell’articolo 580 del Codice penale, quello che punisce il reato di istigazione o aiuto al suicidio. La Consulta si sarebbe dovuta esprimere nel merito della vicenda di Marco Cappato, assolto dal tribunale di Milano dopo aver accompagnato a suicidarsi, in una clinica svizzera, Fabiano Antoniani, per tutti dj Fabo.

 

 

 

Quel rinvio, con la richiesta al Parlamento di utilizzare i dodici mesi per legiferare sulla materia, era di fatto una decisione. E oggi che l'ordinanza è stata depositata, tutto appare ancora più evidente. Per la Corte infatti, si legge nel comunicato ufficiale, il divieto di aiuto al suicidio, “anche nell'odierno assetto costituzionale, ha una sua 'ragion d'essere' soprattutto nei confronti delle persone vulnerabili che potrebbero essere facilmente indotte a concludere prematuramente la loro vita, 'qualora l'ordinamento consentisse a chiunque di cooperare anche soltanto all'esecuzione di una loro scelta suicida, magari per ragioni di personale tornaconto'”.

  

Ciò nonostante, prosegue la nota, “non si può non tener conto di specifiche situazioni, inimmaginabili all'epoca in cui la norma incriminata fu introdotta”. Ed è qui che i giudici, di fatto, prendono una decisione chiara. Perché dettagliando queste “specifiche situazioni” parlano espressamente di una persona: “affetta da una patologia irreversibile e di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti capace di prendere decisioni libere e consapevoli”. È in questi casi che “l’assistenza di terzi nel porre fine alla sua vita può presentarsi al malato come l’unica via d’uscita per sottrarsi, nel rispetto del proprio concetto di dignità della persona, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare”.

 

Tradotto: Marco Cappato, anche tenuto conto della legge sul fine vita approvata nel 2017, ha agito rispettando la volontà del malato. E quindi, in casi come il suo, “il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli articoli 2, 13 e 32, secondo comma, della Costituzione, imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita, senza che tale limitazione possa ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile”.

 

Appare quindi evidente che la Consulta, pur rinviando al Parlamento il compito di “porre rimedio a questo vulnus”, ha indicato una strada chiara. Dopotutto, si legga ancora nel comunicato, “se, infatti, il valore della vita non esclude l’obbligo di rispettare la decisione del malato di lasciarsi morire con l’interruzione dei trattamenti sanitari, 'non vi è ragione per la quale il medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento – apprezzato come contrario alla propria idea di morte dignitosa – conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale'”.

 

Insomma, il nodo da sciogliere è sempre lo stesso: quando una vita può ritenersi degna di essere vissuta? E forse non è altrettanto “vulnerabile” e meriterebbe una tutela maggiore chi, proprio per la condizione di malattia che vive, può essere facilmente indotto a pensare che la morte sia l'unica soluzione possibile?

 

La Corte, pur nascondendosi dietro una non decisione, risponde a modo suo a queste domande. Ed è proprio questo che Massimo Gandolfini, leader del Family day, condanna nettamente: “L’ordinanza della Corte Costituzionale non fa che affermare un principio che non condividiamo e non potremo mai condividere: la disponibilità della vita umana, alla stregua di un bene patrimoniale. Dobbiamo affermare che il bene vita è fondante ogni altro bene, diritto e valore e, in quanto tale, disporre della vita a piacimento è come disporre di ogni altro diritto, considerato di per sé, non negoziabile. La vita era, è e rimane valore assoluto che non conosce tempo e difenderla – senza accanimenti illeciti – è un dovere morale. Facciamo quindi appello al Parlamento perché ribadisca la condizione attuale, non lasciando spazio né pratico né culturale affinché non passi anche l’idea che ci sono condizioni per le quali la vita può essere violata”.

Di tutt'altro tenore il commento di Marco Cappato: “La Corte Costituzionale ha chiarito ciò che abbiamo sempre sostenuto, cioè che, in determinati casi, il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare la libertà di autodeterminazione del malato. È così stata esplicitamente rigettata la linea sia del Governo Gentiloni che del Governo Conte. Spetterà ora al Parlamento intervenire. Il coraggio di Fabiano Antoniani nell'agire pubblicamente, e l'azione nonviolenta di disobbedienza civile, offrono al Parlamento - grazie alla Corte costituzionale - una grande occasione di riforma per allargare gli spazi di libertà e responsabilità fino alla fine della vita. Mi auguro che i Parlamentari sappiano sottrarre un tema così importante alle logiche di partito e di fazione, facendo prevalere la ricerca dell'interesse generale, e in particolare dei diritti delle persone che soffrono”.