(foto d'archivio LaPresse)

Intitolare a qualcuno una via è il miglior modo per farlo dimenticare

Antonio Gurrado

A che serve dedicare una strada di Milano alle calciatrici che sfidarono il veto fascista: la toponomastica è solo la versione educata dell'oblio

Ho trovato commendevole la proposta di dedicare una via di Milano alle calciatrici che sfidarono il veto fascista sul calcio femminile nel 1933, fino a che non sono uscito di casa e ho condotto una rapida inchiesta. Ai vicini che abitano in via Arcivescovo Calabiana ho infatti domandato se sapessero di chi si trattasse: non uno aveva idea della sua rilevanza nel Regno di Sardegna né della sua opposizione alla legge sui conventi né della crisi di governo con cui aveva addirittura costretto Cavour alle dimissioni. Vabbe’, mi son detto, troppo difficile. Allora sono andato vicino alla Stazione Centrale per chiedere ai passanti di via Ferrante Aporti se sapessero chi era Ferrante Aporti. Macché. Non mi è andata meglio in via Francesco Algarotti; figuratevi in via Giovanni Arrivabene, in via Alessandro Arnaboldi, in piazza Graziadio Isaia Ascoli, in via Avancinio Avancini. E Gaspare Aselli chi è? Non se lo ricorda nessuno. Alessandro Astesani? Domenico Aspari? Paolo e Luigia Arpesani? Riccardo Arnò? Niente. Gravi equivoci sono insorti in piazza Emilio Alfieri; in via Angilberto II nessuno è in grado di distinguerlo da Angilberto I, mentre Roald Amundsen è talmente negletto che quelli che abitano nella via che porta il suo nome a stento ne sono consapevoli. Grazie al cielo mi sono fermato alla lettera A dello stradario di Milano, prima di trarre l’irrevocabile conclusione che intitolare una via a qualcuno è la maniera più rapida di farlo dimenticare, e che la toponomastica è la versione educata dell’oblio.

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