(elaborazione grafica di Enrico Cicchetti)

Una fogliata di libri

Niente scherzi, il gioco è davvero la cosa più seria che ci sia

Edoardo Rialti

Da Huizinga a Ratzinger fino a Platone: come la pratica ludica ha attraversato le varie tappe della storia dell'uomo

Il gioco è faccenda mortalmente seria e il fantastico saggia il tessuto dell’ordinario. Si è appena concluso il Lucca Comics di fumetti, giochi di ruolo e cosplayer. Primo fra loro resta don Chisciotte, che ridicolo e struggente sì vestì e agì nel mondo moderno come quanto aveva sognato sulla pagina. Vanni Santoni ne “La Stanza profonda” si è interrogato sulla permanenza del rito d’iniziazione nella contemporaneità secolare nei videogiochi e le schede-personaggi, sorta di coazione a ripetere per incontrarvi almeno così il drago che la società consumistica ha reso impalpabile, inaffrontabile e quindi vittorioso.

 

Già Huizinga aveva scritto sull’“homo ludens”, una riflessione ripresa poi teologicamente da Ratzinger che a sua volta si richiamava a Platone: l’esistenza dell’uomo è “laborioso gioco che è quanto di meglio vi sia nella sua natura”. In quella sospensione della legge di necessità emerge più chiaramente ciò agisce sempre, in ogni gesto. Una guerra simulata, eco e rifrazione dell’addentrarsi primigenio nella selva per tornare con una piuma d’aquila o una pelle d’orso ed essere accettati come adulti. L’avversario sportivo fa cadere a terra, e ci si rialza. Si muore per non morire. Su tutto questo si impernia il poema medievale “Sir Gawain e il Cavaliere Verde”, studiato da uno dei gran numi tutelari di Lucca medesima. J. R. R Tolkien non si limitò a insegnarlo a Oxford ma lo tradusse in inglese contemporaneo e il frutto del lavoro è adesso disponibile presso Bompiani (a cura di Luca Manini). Un’avventura sfavillante e spigolosa, in un medioevo di castelli e monti così aguzzi che paiono trapassare la mano, e intrecciata alla Quest romanzesca è un’esplicita riflessione sul valore del racconto e del gioco. Re Artù siede a tavola a Natale: “Non gli piaceva mangiare / in un giorno di festa sì bello se prima non gli si narrava / una storia strana”.

Un immane Cavaliere Verde si presenta e sfida a sferrargli un colpo, accettando di subire il medesimo fendente un anno dopo. L’impetuoso Galvano accetta – Quat so bifallen after, accada ciò che accada – e gli spicca la testa. La creatura la raccoglie e dichiara la tenzone ancora valida. L’inizio di un viaggio ai confini del mondo che in realtà è un acceleratore premuto perché la macchina umana schizzi a velocità folle, e palesi così i suoi effettivi meccanismi interni, ospiti di un castellano misterioso, allegro, feroce e irresistibilmente seducente e la sua consorte, che intesse col protagonista una schermaglia amorosa che cova una prova nella prova. “E v’era in quel gioco un gran piacere; / un gran periglio stava in mezzo a loro”.

 

Lo sapevano bene Paolo e Francesca, mentre leggevano a loro volta un romanzo cavalleresco. I pegni delle fiabe e la sottile manualistica cortese incarnano e attualizzano antichi miti solari, dall’India alla Britannia celtica. Ne è stato tratta anche una recente pellicola, uno dei migliori film “sul fantasy” e non meramente fantasy dai tempi del “Barone di Munchausen” di Gilliam. Lo straordinario testa il segreto orgoglio di doti e codici che potrebbero essere meramente naturali, e che per aprirsi a una più vasta comprensione devono anzitutto sbattere contro i propri limiti e meschinità: la paura della morte, il ricorso alla scappatoia della magia per aggirare le regole micidiali dell’agone della realtà. L’eroe imperfetto, direbbe Wu Ming 4, proprio perché immette la sua limitata autonarrazione in una più grande e problematica, può tornare con qualcosa da raccontare al suo re.

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