Grafica di Enrico Cicchetti 

L'unico modo per definire la prosa di Geminello Alvi è chiamarla poesia

Michele Silenzi

Nelle classificazioni delle arti e dei mestieri, Alvi sarebbe economista, ma che sciocchezza ridurlo a questo

Geminello Alvi è forse il più integro scrittore italiano, dove integro non dice di una postura morale ma di una capacità di tenere insieme nella parola scritta un’universalità della sapienza che nel tempo dell’iperspecializzazione è senz’altro perduta. Perduta insieme alla parola che questa universalità, a volte nascosta a volte oscura, è capace di mediare e di cantare. 


Nelle classificazioni delle arti e dei mestieri, Alvi sarebbe economista, ma che sciocchezza ridurlo a questo. Alvi è un uomo che pensa e che pensando traduce i suoi pensieri in una lingua che è essa stessa un pensare. La sua scrittura è un tentativo di far apparire, attraverso la descrizione di processi economici e storici e di vite fuori dal mondo, ciò che è più proprio, ciò che tutto tiene insieme, quella sorta di principio unificante e vivificante che può fare la comparsa solo nel sabba ordinato di una scrittura. 


Che Alvi racconti di storia economica, di confederazioni politiche, di soggetti eccentrici o delle figure assolute della classicità, ciò che domina i suoi scritti è un pensare incarnato nella parola mai estetizzante ma sempre alla ricerca, e allo stesso tempo portatrice, di un significato possibile dietro processi ed esistenze. Forse l’unico modo per definire la prosa di Alvi è chiamarla, in un’apparente contraddizione, poesia ovvero parola che apre radure nelle foreste fitte di informazioni inutili, di rumori di fondo che affollano le nostre esistenze. Parola che collega eventi e tempi in apparenza lontani eppure costantemente presenti e contigui. 


E’ quindi quasi ovvio che sia ora uscito per Marsilio un suo libro dedicato a Virgilio. Qui la prosa di Alvi diviene immediatamente poetica come mai prima. L’incarnazione della sua parola in quella di Virgilio (“Io, Virgilio” è il titolo) suggerisce un’immedesimazione impalpabile eppure totale già subito nel rapporto con Volumnia, schiava che sfiora le ninfe e madre autentica del poeta, a cui è dedicato il libro: “Io, la Volumnia, tra le ninfe mi ritrovo da giovane a emozionare i fiori. Ma il mio Virgilio ancora non arriva; piange disperato e tutto solo come facevo io vecchina quando lui malato urlava, stanco, e malamente mi rimandava via”. Tutto il libro retrocede di continuo dalla morte verso l’inizio fino all’attimo vuoto e perenne che è al di là di ogni termine: “Non voglio morire, ma ritornare, regredire al prima di mia madre perché esso avvolga di vita quanto attendo, e ne uccida l’inganno”. E allora questa dedica a Volumnia, a questa custode dello spirito, a questa madre assoluta, al principio precosciente, fa tornare in mente un altro inizio, un’altra dedica di Alvi, quella in esergo a Le seduzioni economiche di Faust, suo primo formidabile libro, al principe Myškin, il dostoevskijano idiota. 


Quel riferimento a Myškin appare oggi come il fil rouge della poetica alviana: quel personaggio che gli è così caro appare come l’Uomo cercato tra gli uomini, l’unico che non è Cristo ma è degno di salvezza, sorta di bambino astrale come nella quarta egloga virgiliana si è voluta vedere la profezia della venuta del Cristo. “Nell’egloga quarta già sognavo quest’uno, il fanciullo, che vedrà gli eroi insieme agli dèi, riconosciuto tale lui stesso: nel suo regno non più paura, ma pareggio di tutte le sorti umane. Eppure morirò prima di vederlo che riunisce Apollo e l’edera di Dioniso”.


Alvi qui, nella morte-nascita del poeta, sembra completare il cerchio che lo porta ad attingere quella dimensione idiotica-liberatoria-salvifica del vuoto, la circolarità aperta di un altrove dove tutti finiscono ma i poeti iniziano “Dov’è il vuoto, lì è vivo il sogno. Così udendomi Virgilio piccolino guarda la luna che gli pare il sole; e ammette d’esserne sognato, sognando a sua volta Virgilio adulto che Efile abbraccia e trattiene dov’è la quercia vicino al lauro”.
 

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