(foto Wikipedia)

Samuel Johnson e la scrittura come forma di riparazione

Rinaldo Censi

Il lavorìo continuo, in una Londra popolata di vagabondi e miserabili, era forse l’unico rimedio in grado di dare equilibrio al suo umore perennemente melancolico

A fare da sfondo a questa vicenda letteraria c’è una città, Londra. Samuel Johnson vi giunge nel marzo del 1737. Lascia il suo borgo natio, Lichfield, con la guglia gotica della cattedrale a fungere da faro spirituale. Sente di non aver nulla a che fare con quel luogo provinciale, ottuso, pettegolo. Quando vi farà ritorno nel 1762, per pochi giorni, avrà l’impressione nitida che le strade siano ancora più strette e anguste di quanto ricordasse, abitate da gente che lo considera un alieno. Londra permetteva un diverso approccio alla vita, alla moralità e ai rapporti umani: metro di giudizio, questo, che Johnson farà suo – a modo suo – per tutta la sua vita. Da Lichtfield era partito insieme a un altro giovane in cerca di un avvenire migliore, David Garrick, mandato dai genitori nella capitale in vista di una carriera da avvocato. Diventerà invece uno dei più grandi attori teatrali mai esistiti. In ricordo di quel viaggio verso Londra, metterà in scena nel 1749, ormai famoso, la tragedia che all’epoca Johnson stava componendo, Irene.

 

Ma com’è Londra nel 1737? Vitale, fascinosa, il luogo adatto per iniziare una nuova vita. Conta già circa mezzo milione di abitanti, ma è anche sporca, male illuminata, con le fogne a vista, senza alcun marciapiede. Le strade non sono pavimentate. E’ abitata da gente rissosa, manesca, villana, litigiosa; ladri e prostitute ravvivano i bassifondi. Giorgio Manganelli, che, come Thomas de Quincey con Immanuel Kant, ha composto un ritratto di Johnson “alla seconda potenza”, glossando la mirabile biografia di James Boswell, tanto da sceglierne il medesimo titolo, “Vita di Samuel Johnson”, dona una magnifica descrizione della città: “La Moll Flanders di Defoe, di circa vent’anni prima, ci mostra una città di piccoli delinquenti, miserabili e sventurati, che la gremivano in ogni suo quartiere, illustre o povero”. Questo è lo sfondo della città in cui Johnson visse per una cinquantina di anni, in maniera disordinata, irrequieta. Neppure le cure della moglie, di vent’anni più anziana, riuscirono a introdurvi compostezza. Cambierà una ventina di domicili e viene il dubbio che il titolo del periodico The Rambler, cioè Viandante, Girovago, abbia paradossalmente a che fare un po' con questo. Uscì ogni martedì e sabato per due anni, tra il 1750 e il 1752. I 208 articoli che lo compongono sono ora disponibili in lingua italiana, grazie alla lungimiranza dell’editore Nino Aragno. Curati e introdotti autorevolmente da Daniele Savino, permettono di cogliere Samuel Johnson nel pieno della sua attività di scrittore. All’epoca stava ancora lavorando alacremente al suo monumentale Dizionario della lingua inglese (che concluse nel 1955).

 

Sembra che nella sua vita Johnson non abbia fatto altro che fissare inchiostro su pagine. La scrittura, il lavorìo continuo, erano forse l’unico rimedio in grado di dare equilibrio al suo umore perennemente melancolico. Buffo a vedersi, segnato dalla “scrofolosi”, è pieno di tic, tanto che dalle descrizioni di Boswell sembra quasi di scorgere in lui una forma di tourettismo, lo affliggono pure disturbi ossessivi compulsivi (ancora Boswell ricorda che per uscire di casa doveva compiere ogni volta, esattamente, lo stesso numero di passi). Sir Joshua Reynolds, uno dei suoi più cari amici, lo ritrae in alcuni dipinti. In uno di questi, del 1775, lo vediamo di tre quarti, tutto assorbito nella lettura di un un libro, con foga tale da stropicciare le pagine. Scrivere, leggere, prendere appunti (girava sempre con un taccuino, facendo suo un metodo di notazione che aveva appreso leggendo il famoso testo di Locke, “A New Method of Making Common-Place-Books”): non esisteva probabilmente altro modo per tenere a bada ciò che egli aveva soprannominato “black dog”, quel suo umore bilioso, depressivo, che non gli dava tregua. Impossibile combatterlo, meglio eluderlo con diversivi. Ma come? Scrivendo, leggendo, dandosi scadenze impossibili. Potremmo affermare che per Samuel Johnson la scrittura incarni una “forma di riparazione”. Una sorta di “esercizio spirituale”. Nel corso della sua esistenza, egli ha sempre fatto suo il piacere socratico della conversazione, senza mancare di pungere con rimarchevole sarcasmo i suoi avversari. A sostegno ci sono i classici: Epicuro, Plutarco, Epitteto, Marco Aurelio, Diogene Laerzio. C'è posto anche per Bacone, Montaigne. I numeri di The Rambler, pubblicato anonimo a due pence, risentono di queste tensioni, quelle di uno scrittore “moralista”, irrequieto, a cui non manca il gusto della satira. Ispirato dal metodo di Joseph Addison, messo a punto nel suo The Spectator, gli articoli de Il Viandante, senza eccedere in erudizione, tra racconti, fervida immaginazione, critiche letterarie, sguardi psicologici, riflessioni filosofiche, mostrano in filigrana un prontuario di precetti e consigli, dedicati spesso al decorum. Idealmente indirizzate a tutti, siano questi aristocratici, o gente comune, queste pagine sono in fondo un autoritratto.