Mario Tobino (elaborazione grafica Il Foglio)

Lo scrittore che raccontava la Pazzia dal suo manicomio

Giulia Ciarapica

L’universo letterario di Tobino viaggia di pari passo con quello più intimo, personale, in un gioco di intrecci che prevede la combinazione parallela della sua carriera di psichiatra con quella di scrittore

“La Pazzia è ritornata ad avvertire che in ogni grano di manicomio essa è la padrona, la Pazzia che tutto vola ridendo in inconcepibile anarchia”. In questa frase, estrapolata da uno dei più celebri romanzi di Mario Tobino, affiorano due parole chiave che contraddistinguono la sua opera narrativa: pazzia e anarchia. Entrambe si inseriscono non soltanto nella traccia letteraria del viareggino, ma anche nella sua indole e soprattutto nella sua concezione della realtà.

    

L’universo letterario di Tobino viaggia di pari passo con quello più intimo, personale, in un gioco di intrecci che prevede la combinazione parallela della sua carriera di psichiatra con quella di scrittore – l’attitudine umanistica si veniva delineando già dai tempi dell’università, come dichiarò Tobino in persona (“avevo la predisposizione a stare attento ai moti degli animi”) – e poi, ultimo ma di certo non ultimo, un ulteriore tassello va a unirsi alla pluralità di un quadro già di per sé variegato, completandolo: non stiamo parlando di un qualunque scrittore della Versilia. Mario Tobino è “Lo Scrittore” della Versilia, che nacque a Viareggio e che di Viareggio raccontò – tramandò – trasformando la città in una dea antropomorfa dal nome inconfondibile, Medusa.

    

Mario Tobino, dicevamo, ancor prima di essere scrittore, fu medico e direttore nell’ospedale psichiatrico di Lucca, in cui visse e operò per trentacinque anni alloggiando in due stanzette che divennero il principale luogo di stesura dei suoi libri. Il manicomio fu il punto di partenza e anche quello di ritorno, in cui Tobino imparò a conoscere sempre più da vicino i deliri dei pazienti e a trasformare la follia in materia letteraria, ma questa volta allo stato puro. Perché tanti sono gli scrittori che hanno affrontato questo delicatissimo tema, a partire da De Roberto con “I Viceré” (pazza è la principessa che per trent’anni ha usato i figli come pedine, pazzo è il primogenito Giacomo e pazza la sorella Chiara, che abortì il feto e lo mise sotto spirito) fino ad arrivare ai numerosi personaggi pirandelliani, ma Tobino, con una penna genuina, diremmo quasi immacolata nella sua essenzialità (“Ho scritto sempre quello che il cuore mi dettava, non ho mai preso ordini”), ci apre letteralmente le porte di quest’universo simultaneo e terrificante. Lo fa con il romanzo che gli valse il Campiello nel 1972, “Per le antiche scale”, ma lo fa soprattutto con “Le libere donne di Magliano”, una sorta di diario personale, intervallato da episodi più strettamente narrativi, tutto dedicato alle malate dell’ospedale psichiatrico di Magliano.

    

Donne libere, come detto nel titolo, ma di fare cosa? Ovviamente di dar voce alla pazzia, il che significa al contempo liberare la propria sessualità – in ogni gesto, in ogni grido disperato, c’è un erotismo netto e preciso, quasi dichiarato – ed essere schiave della propria mente, che è l’unico tiranno di ogni malato. Come fossero dee dell’Olimpo, capricciose e terribili, irose e “agitate”, le libere donne di Magliano sono vittime della psiche ma restano autentiche nella conservazione degli affetti, che stanziano immutati dentro di loro, come congelati. Ecco perché Tobino decide di raccontare il mondo manicomiale, perché ogni creatura che lo abita è prima di tutto una creatura “degna d’amore” e lui lo sa, lo capisce fin da subito per quella sua indole spiccatamente sensibile e nondimeno ribelle, anarchica, che lo porta a comprendere le pieghe più buie della mente compromessa.

   

Ma, a questo punto, emerge qualcosa in più: “Il suo carattere ribelle e soprattutto quell’attesa di un ritorno di qualcosa di autentico” scrive Giulio Ferroni nel contributo alla raccolta da lui stesso curata, “Dalla parte del mare. Tobino e la Versilia nel Novecento” (Salerno Editrice), sottolineando un legame ancestrale tra il Mario Tobino uomo e scrittore e la sua città, Viareggio, che ne “Il clandestino” (romanzo con cui vinse lo Strega nel 1962) trasforma in “una presenza viva e animata, quasi una persona amata, una ragazza da cui la vita a un certo punto lo ha allontanato”. Vi è come una sovrapposizione naturale tra Tobino – con la sua personalità indomita e sovversiva, grazie a cui riesce ad empatizzare con i suoi malati – e Viareggio – che sembra manifestarsi più vivace che mai “nelle azioni clandestine”.

   

Tra follia e passione, tra perenne rincorsa della verità e coltivazione della memoria, a centodieci anni dalla nascita Tobino resta uno degli scrittori più autentici in tutta la sua purezza letteraria.

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