John Dunstall. "La rappresentazione della peste e delle sue conseguenze (1666 )

L'epidemia romanzata di Defoe che scuote ancora le nostre coscienze

Olga Brandonisio

Ai tempi del coronavirus il "Diario dell'anno della peste" dello scrittore britannico va a ruba. Sembrerebbe una deposizione affidabile. Ma le cose stanno diversamente

Si è parlato molto di autori che hanno raccontato condizioni, sensazioni, disagi e somiglianze con il nostro - perché ormai ci appartiene - coronavirus. Da Camus a Poe, da Boccaccio a Manzoni fino al “Diario dell’anno della peste” di Daniel Defoe. È vero: le vicissitudini epidemiche del passato sembrano le medesime dei nostri giorni e – aspetto finora tralasciato - finanche le modalità di diffusione delle notizie paiono affini a quelle news ‘acchiappa click’ che oggi affollano i media.

 

Per capirne di più bisogna volgere lo sguardo al 25 maggio del 1720, quando la Grand-Saint-Antoine, nave proveniente dalle coste della Siria, raggiunse il porto di Marsiglia carica di tessuti pregiati e balle di cotone. Un viaggio commerciale come tanti altri, se non fosse che il capitano Jean-Baptiste Chataud, ansioso di mostrare la sua merce alla rinomata fiera francese di Beaucaire, avesse sottostimato di proposito un segreto terribile: tra sbuffi e sete di gran valore viveva indisturbata la yersinia pestis, il batterio della peste. Prima dell’arrivo a Marsiglia la nave fece tappa a Livorno dove furono fatti sbarcare i cadaveri di otto membri dell’equipaggio rimasti contagiati. Il comandante temeva che la nave fosse sottoposta a quarantena immediata impedendogli così di arrivare in Francia in tempo per la fiera. Ma, per sua fortuna, la negligenza dei medici italiani e il rilascio della ‘patente nette’ (licenza chiara) permisero alla nave di ripartire in gran fretta verso Marsiglia. Senza dubbio si trattò di una decisione avventata, che provocò la diffusione incontrollabile del batterio pestifero nel sud della Francia, passato alla storia come Peste di Marsiglia che causò circa 126.000 vittime.

 

Le notizie sulla propagazione dell’epidemia in Provenza non tardarono a giungere alle orecchie dei londinesi i quali, fra la fine del 1664 e il 1666, avevano già perso oltre 75.000 persone per via della peste. Insomma, dopo appena 56 anni l’epidemia era tornata, gettando nel panico la popolazione. La domanda di tutti era: come evitare stavolta la circolazione della grande peste? Quesito legittimo, certo, a cui molti – troppi - provarono a rispondere. E così un’ondata di pubblicazioni di ogni genere investì l’Inghilterra: scientifiche, filosofiche, religiose, diari e manifesti di pubblicità progresso e no. In breve, il panico.

 

Inizialmente, l’obiettivo fu di suggerire al primo ministro inglese Robert Walpole e al re Giorgio I alcune misure di contenimento, prima che la peste raggiungesse di nuovo il territorio britannico.  Richard Mead, rinomato medico inglese, pubblicò prontamente "A Short Discourse concerning Pestilential Contagion, and the Method to be used to prevent it", uno studio d’importanza storica per la comprensione delle malattie contagiose. Ma ben presto prevalse la tentazione di speculare sull’emergenza. Vale la pena ricordare Richard Bradley, un botanico di scarso successo, che pur di accattivarsi la considerazione del pubblico inglese scelse un titolo spudoratamente – potremmo definirlo oggi - ‘acchiappa penny’: "The Plague of Marseilles. Also Observations taken from an original Manuscript of a graduate physician, who resided in London during the whole time of the late plague, anno 1665". Insomma, tutto è già spiegato in prima pagina con il titolone a effetto, non disturbatevi ad approfondire la questione.

 

A ogni modo, il fermento del dibattito intellettuale attorno alla peste contagiò anche la fantasia e il genio di Daniel Defoe che raccolse, con la meticolosità di un giornalista illuminista, documenti e testimonianze relative alla pestilenza del 1665, scrivendo uno dei diari sulla peste più letti nella storia della letteratura europea, considerato per anni una deposizione in prima persona, genuina e affidabile. Ma così non è. William Minto, uno dei biografi dello scrittore, sostiene che Defoe è stato forse uno dei più grandi bugiardi che sia mai vissuto. In effetti, quando l’autore pubblicò il diario nel 1722 non inserì il suo nome, bensì attribuì l’opera a H. F., narratore e protagonista, con la dicitura “scritto da un cittadino che rimase tutto il tempo a Londra”. Oltre a trattarsi di un mero escamotage per incrementare le vendite, portò i lettori a considerare l’opera un vero reportage. Fu soltanto nel 1780, quasi 50 anni dopo la sua morte, che il diario fu attribuito a Defoe, che non poteva essere il diretto e affidabile testimone dei fatti data la sua giovane età quando la grande peste travolse Londra – nel 1665 aveva solamente cinque anni.

 

Non è un caso se oggi, come riferisce Amazon, l’edizione inglese Penguin del Diaro sia andata a ruba e al momento non sia più disponibile. Nonostante l’espediente usato da Defoe, si tratta di un’opera capace di intrecciare realtà e verosimiglianza, di scuotere le coscienze rispetto agli orrori dell’epidemia, oltre che di rinfrescare la memoria collettiva passata e presente.

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