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Uffa!

Le grandiose librerie di una vita. Prima di Amazon e dei sensi di colpa

Giampiero Mughini

Storie e momenti tra la carta. Da una quasi azzuffata al coraggio di entrare in luoghi economicamente proibitivi. Quando ancora non esisteva il commercio online

E’ tutta colpa del Foglio, oltre che dell’Amazon che in fatto di vendita di libri attenta quotidianamente alle mie povere tasche. Pago così il reato più grave della mia vita, quello di non frequentare più le librerie fisiche, quelle dove avevo trascorso la buona parte dei miei vent’anni. Lo pago caro questo reato. Stante che nella casa romana che ho comprato una ventina d’anni fa non c’è difatti un portiere, ciò di cui allora ero soddisfatto perché la reputavo una spesa in meno. Un corno. Nell’epoca del trionfo del commercio online, a casa mia è un continuo mitragliare del citofono di casa e del relativo e furioso abbaiare del mio cane Clint. Devo precipitarmi all’ingresso di casa mia quattro o cinque volte al giorno, non di meno. E dunque un portiere mi sarebbe infinitamente più necessario di un’amante per quanto attraente.

L’idea di scrivere questo articolo mi è venuta stamane, quando il citofono ha annunciato l’arrivo di un prelibato librino Adelphi curato nientemeno che da Serena Vitale, le “Memorie di un pazzo” dell’immane Nikolaj Gogol’. Non fosse che ho appena cominciato il succulento “Reduce” (la prima edizione è del 2006) di Giovanni Lindo Ferretti – che Amazon mi aveva consegnato due o tre giorni fa – sarei già qui a leggerlo. Sì è colpa del Foglio, perché ai libri che compravo abitualmente per lavoro o per inserirli nelle mie collezioni vanno aggiunti adesso i libri che le case editrici mi mandano nella speranza che diventino oggetto di uno di quei miei colonnini del martedì sul Foglio.

Sto scrivendo tutto questo, e lo ripeto, con un senso di colpa. Quello di non entrare più – o rarissimamente – in una libreria fisica. La mia organizzazione del lavoro non me la consente quell’ora/ora e mezza tra andata e ritorno che comporta a Roma l’arrivare in una libreria del centro, girovagare tra gli scaffali, soppesare questo e quello, andare alla cassa, pagare. Ossia quel rituale che nei miei anni catanesi era il rituale il più desiato di tutta la giornata. Al tempo della mia frequentazione di una ragazza bionda che da ventenne ho molto amato, era quello il nostro tempo migliore. Dapprima nella libreria Urzì, di proprietà del padre di un giocatore di pallavolo mio amico, più tardi nella libreria/tempio di Ciccio D. e Carmelo Volpe, quei miei due amici più che fraterni che si erano conosciuti una sera in cui ero andato a giocare a tennis tavolo contro Carmelo.

Fu per me molto doloroso il momento del 1968-1969 in cui Ciccio D. aderì al gruzzolo di trogloditi che a Catania sventolavano il vessillo dell’Unione dei marxisti-leninisti, i cui eroi erano Stalin e Mao. Quando uscì il numero di Giovane critica – la rivista che avevo fondato nel 1963 e che è stata fra quelle che hanno marchiato la mia generazione – qualcuno mi telefonò a dirmi che il numero di Giovane critica la cui copertina sfotteva Stalin, Ciccio D. lo aveva sprezzantemente ficcato in uno scaffale dedicato ai fumetti. Piombai in libreria, scaraventai via la copertina dov’era raffigurato (elegantemente) l’orrido criminale, urlacchiai contro Ciccio D., e per fortuna sopravvenne Carmelo a evitare che la zuffa peggiorasse. Lo sto ricordando con il dolore immenso dovuto al fatto che quei miei due amici non ci sono più.

In una libreria fisica romana ci sono stato qualche giorno fa, a dire tutto il bene possibile del recente libro di Giuseppe Del Ninno, “La guerra addosso”. Nella libreria Eli che è l’unica sopravvissuta all’impero di librerie – ben diciotto – che Marcello Ciccaglioni aveva creato nel tempo a partire da quella bancarella di libri che lui aveva giostrato innanzi alla Stazione Termini, librerie alcune delle quali belle e importanti e che lui ha chiuso via via da quando si è abbattuto il mercato delle librerie fisiche in un Paese dove non più del dieci per cento della popolazione legge libri. E con tutto questo, al modo dell’unico soldato giapponese che era sopravvissuto alla fine della Seconda guerra mondiale asseragliandosi in non ricordo più quale bosco o trincea, Marcello non molla l’osso.

Nella sua Eli almeno una volta a settimana c’è un appuntamento che ha al suo centro un libro o uno scrittore d’eccellenza. Oggi martedì 5 marzo a via Somalia saranno in quattro a raccontare vita e opere di Antonio Delfini, lo scrittore modenese (è morto nel 1963) dimenticatissimo dai più, i quali non sanno che cosa si perdono in fatto di raffinatezza letteraria. Quando venti o trent’anni fa stavo impiantando la mia collezione di prime edizioni di letteratura italiana del Novecento mi svenai pur di comprare uno a uno i libri e librini di Delfini, vi compreso quel leggendario “Marantogide” arredato dalle illustrazioni originali di Gino Marotta e di cui si conoscono 3 o 4 esemplari sopravvissuti a un Delfini che ne distrusse tutti gli altri appena pubblicati.

E anche se le librerie più toccanti della mia vita restano quelle librerie parigine del Quartiere Latino di cui passavo interi pomeriggi tra il 1967 e il 1968 a guatarne le vetrine dov’erano copie in prima edizione di Marcel Proust o Jules Verne o Tristan Tzara i cui prezzi erano per me irraggiungibili. Nemmeno entravo in quelle librerie antiquarie perché temevo che mi avrebbero fatto pagare già solo il toccarle quelle copie. Una volta presi il coraggio a due mani ed entrai in una libreria specializzata in libri illustrati del Novecento, capitolo floridissimo dell’editoria francese di inizio secolo scorso. Chiesi se ne avessero libri illustrati da Alfons Mucha, il pittore cecoslovacco (morto nel 1939) che a Parigi creò il suo destino e la sua fama. Siccome ce lo avevo scritto in faccia che non avevo un soldo che fosse uno, con aria annoiata il libraio mi disse che quei libri non li avevano. Mi piacerebbe reincontrarlo oggi e fargli visitare la mia biblioteca, dove quei libri (beninteso non nelle costosissime tirature di testa) ci sono quasi tutti.

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