(foto Olycom)

Uffa!

L'avventura creativa di Bruno Munari: sperimentare il limite e il nuovo

Giampiero Mughini

Una mostra alla fondazione Magnani-Rocca. Il curatore è Marco Meneguzzo, che ha raggrupato e organizzato le 250 opere in cinque diverse sezioni

Ci voleva questa imminente mostra su Munari alla Fondazione Magnani-Rocca (apre il 16 marzo), una mostra annunciata come la più ricca mai fatta in Italia su questo gigante dell’avanguardia artistica europea del Novecento, perché venissi a sapere che durante gli anni della Seconda Guerra mondiale oltre che un dipendente della Mondadori Munari era stato addetto a una batteria contraerea a Milano, la città più bombardata d’Italia. Difficile immaginarlo un uomo di tale raffinatezza e compiutezza intellettuale mentre si dava da fare in uno dei comparti più scalcinati del miserando esercito fascista. Gli aerei alleati non ebbero troppo fastidio dalla contraerea italiana né quando protessero i fanti angloamericani che stavano mettendo piede in Sicilia, né quando il 19 luglio 1943 bombardarono il quartiere San Lorenzo e il quartiere Nomentano a Roma provocando quei 1.500 morti che pochi giorni dopo indussero i membri del Gran Consiglio del Fascismo a dire di no a Benito Mussolini.

Quanto al tempo del fascismo, Munari aveva sì meravigliosamente illustrato graficamente testi e riviste e poster dov’era un osanna a Mussolini, ma non che ne fosse stato insozzato. Non è che la politica dei partiti l’un contro l’altro armati lo avesse mai interessato gran che. Gli interessava innovare, sorprendere, scovare versanti finora nascosti dei linguaggi della comunicazione. Oltretutto mettetevelo bene in testa che dal punto di vista di una comunicazione modernissima – pittura, grafica, linguaggio pubblicitario, uso della foto – , gli anni Trenta sono stati in Italia tra i più fecondi dell’intero Novecento. Ho appena finito di svenarmi nel comprare due abbaglianti volumoni editi allora, l’uno offertomi dal libraio Piero Piani di Bologna e l’altro dalla libreria Pontremoli di Milano, e a proposito della cui comunicazione grafica e fotografica non c’è altro da fare se non del 1929 applaudirne l’inventiva.  Quanto al tragitto artistico di Munari, il maestro degli anni Cinquanta e Sessanta che il Moma di New York volle esaltare fin dal 1955 era già bell’e maturo negli anni del fascismo. Quando a Milano lui e il pittore Riccardo Castagnedi (Ricas) diedero vita dal 1931 al 1937 al prodigioso studio grafico R+M. E del resto i riconoscimenti del ruolo primario di Munari durante ben oltre mezzo secolo (è morto a 91 anni nel 1998) si fanno ricorrenti.

Uno dei pezzi forti della mostra alla Fondazione Magnani, il quadro a olio di impronta futurista dal titolo la “Buccia di Eva”, è stato aggiudicato di recente a un’asta per oltre 170 mila euro, un record per il Munari pittore. Gli editori Corraini di Mantova non perdono occasione di rieditarne e promuoverne i libri. E’ animata dai Corraini l’affascinante libreria milanese che ha nome “Spazio Munari” e che in via Savona ha preso il posto di una precedente libreria. I minacciosissimi (per le mie tasche) librai antiquari della Pontremoli a fine aprile metteranno in vendita una raccolta di oltre 200 tra libri riviste e oggetti di design marchiati dal genio di Munari e appartenuti a un collezionista. Nel mio piccolo, in un librino di prossima uscita dove ho provato a fare “una controstoria” dell’Italia repubblicana, al cuore del libro ho ficcato gli anni Cinquanta e Sessanta in cui a Milano rifulgeva il Centro Danese e dunque le opere di Munari, di Enzo Mari, del ceramista Franco Meneguzzo.

E siccome tutto si tiene, ecco che il curatore della mostra alla Fondazione Magnani è Marco Meneguzzo, il figlio di Franco. Nato nel 1954, già nel 1993 aveva pubblicato un libro monografico su Munari edito da Laterza. Meneguzzo junior ha raggruppato le oltre 250 opere della mostra in cinque sezioni. “Essere nel tempo”, e cioè le scelte che l’artista fa nel tempo che è il suo, e dunque un Munari che sceglie il futurismo di Enrico Prampolini e non quello di Filippo Tommaso Marinetti. “Dalle due alle tre o anche quattro dimensioni”, e cioè quelle opere di Munari che partono da una superficie per poi diventare un scultura o comunque una figurazione tridimensionale. “Sperimentare il limite”, e se ad esempio il limite di una fotocopiatrice è dato dal dovere fare delle copie il più rispondenti possibile all’originale fotocopiato perché non invece andare oltre quel limite, e fare delle fotocopie ben diverse dall’originale? “Annullare il tempo”, e cioè rivolgerti a un pubblico che non è solo quello dato in quel momento, tanto che Meneguzzo ricorda al proposito una frase che aveva sentito pronunciare a Munari: “Dei miei progetti di design non vendo mai tanto, ma ne vendo per vent’anni”. “Pedagogia dei bambini”, ovvero quel capitolo della creatività di Munari cui era sottostante l’idea: “Perché non farlo in un altro modo da come era stato fatto fino a quel momento”, ad esempio i libri per bambini, altro grande capitolo dell’avventura creativa di Munari. Perché non farli d’ora in poi nettamente diversi da come erano stati fatti per decenni e decenni? Cinque sezioni a raccontare il cento per cento di un artista che ha pochi eguali nel Novecento.

P. s. Alla Fondazione Magnani ci sarà ovviamente una copia della “Anguria lirica”, la clamorosa litolatta dove duettano i testi di Marinetti e le illustrazioni di Munari, uno dei libri d’artista più belli del secolo scorso. Quando mi decisi di vendere la mia collezione di libri futuristi italiani, e questo perché si era ormai consumata la mia esperienza di lettore di questi libri, avevo escluso dalla vendita alcuni libri di Munari strettamente attigui al futurismo. Quelli li tenni e li tengo. Esitai a lungo se tenermi anche la litolatta. Solo che consegnare la mia collezione a un catalogo che sarebbe rimasto nel tempo dopo averla privata di quel libro leggendario, avrebbe voluto dire immiserirla. E dunque l’ho sacrificato. Ne è rimasto come un lutto nella mia coscienza e nella mia memoria.

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