(foto Unsplash)

Uffa!

Storie di cani che a ben vedere sono storie di umani. Chi siamo noi per loro

Giampiero Mughini

Come Bibi e Clint sono arrivati in casa nostra, il primo ha superato i quindici anni, il secondo viaggia verso i sei. Tra Roger Feder, Rafa Nadal, la finale di Wimbledon e una poltrona di Gaetano Pesce

Non ho avuto figli nella mia vita. E’ andata così, per mille ragioni. Sono invece quali due figli i miei due setter inglesi, Bibi (in onore di Brigitte Bardot) che ha adesso superato i quindici anni e Clint (in onore di Clint Eastwood) che viaggia verso i sei. Bibi mi era stata predestinata dalla mia cara amica Elena Stancanelli, allora “padrona” della meravigliosa cagna Mina di cui lo sapevamo che da un momento all’altro avrebbe fatto dei cuccioli. Quando questo avvenne, Elena ci telefonò e io e Michela ci precipitammo a casa sua dove trovammo cinque batuffoli di pelo che succhiavano fortissimamente dai capezzoli di Mina. A me e Michela venne assegnata quella che era uscita per prima dal ventre della madre, ossia la “prima edizione” per restare nel linguaggio a me caro. Durante i primi tre mesi fratellini e sorelline partoriti da Mina se ne stettero tutti assieme a scorrazzare felici per casa. Allo scoccare del terzo mese, Elena e il suo compagno di allora ci portarono Bibi. Era una sera d’estate e a casa mia stavamo cenando in terrazza.

A cena non ancora finita io scesi d’un piano per andare nella stanza della televisione, sul cui schermo era in corso la finale del torneo di tennis di Wimbledon del 2008, e sarebbe stata la prima volta che su quel campo il genio di Roger Federer venne sconfitto dalla tenacia e dalla ossessività dei dritti mancini che Rafael Nadal scaraventava contro il suo rovescio. Era una partita drammaticissima, dove ciascun punto poteva risultare quello decisivo. Dalla terrazza io mi ero portato dietro una Bibi da cui non mi volevo separare e che appariva piuttosto entusiasta della sua nuova dimora. Mentre io palpitavo con tutti i miei occhi e con tutta la mia anima nell’assistere a quello scontro tra titani, alla mia sinistra Bibi si torceva per terra nel disperato tentativo di mordere a sangue la poltrona su cui ero seduto, nientedimeno che una poltrona di Gaetano Pesce. Ciò che io cercavo di impedire con la mia mano sinistra, che un po’ tratteneva quel musetto irruento e un po’ lo carezzava. Fatto è che tutto d’un colpo Bibi dall’essere la regina di casa Stancanelli era divenuta la regina di casa mia.

Storia d’un cane tutt’affatto diversa da quella di Clint per come mi è riaffiorata alla mente dalle quattro foto di Clint cucciolo che Patrizia Del Ninno, la mia cara amica che me lo fece avere, mi ha mandato poco tempo fa. Non credo esistano foto che più di queste manifestino lo strazio di un cucciolo che non ha ancora avuto una dimora e un destino rassicuranti. Figlio di un setter tricolore con cui viveva all’aperto a Ischia, Clint era soverchiato da un padre che gli mangiava la dose di cibo a lui destinato. Patrizia ne ottenne la liberazione e lo affidò a una signora che lo chiudeva in bagno solo soletto appena usciva. Finché Patrizia non capì che quella sorte era fin troppo disperata e riottenne indietro il cucciolo. Mi mandò una foto a dirmi se conoscevo qualcuno che potesse accoglierlo e volergli bene. La foto la raccontava bene la sorte di quell’animaletto scheletrito e impauritissimo. Come dire di no a una tale offerta? Con Patrizia ci demmo appuntamento in una villa di Roma. Appena mi vide Clint mi balzò addosso con l’aria di implorarmi che lo accogliessi e gli volessi bene. Io e Michela lo portammo a casa, dove appena entrò nella nostra camera da letto si tuffò sul cuscino su cui io poggio la testa la notte. In realtà questo suo fraintendimento, che fossi io il capofamiglia e non Michela, durò poco. Clint ci  mise una settimana o forse due a scegliere di stare tutto il giorno alla distanza massima da Michela di venti centimetri, il più delle volte con la zampetta riposta su di lei a impedirle di allontanarsi. Beninteso lui è pazzo anche di me. Quando esco da casa per andare a comprare i giornali e rientrare poco dopo, lui si mette a mugolare a tutto spiano come a dire che non ce la faceva più a sopportare i quindici minuti che gli ero mancato.

Solo che le tracce dell’inferno che erano stati i primi quattro o cinque mesi della sua vita lo pervadono interamente, è come se ne fosse stato modellato per sempre. Pur desideroso com’è di fare le sue passeggiatine quotidiane lungo le strade di Monteverde con Michela, durante quelle passeggiatine la coda se la tiene ben sotto la pancia da quanto è in ansia. Tanto in casa che fuori il minimo rumore inaspettato gli mette gli occhi fuori dalle orbite. Quando arriva qualcuno che non conosce si mette ad abbaiare forsennatamente perché sospetta che sia venuto a portarlo via dal paradiso in cui vive e a restituirlo all’inferno che ha vissuto da cucciolo: poi basta che quello gli porga un biscottino e lui si acqueta e si tranquillizza. E’ come se vivesse costantemente sulle soglie di un abisso in cui teme di sprofondare da un momento all’altro. Adora sì la sorellina, ma capita spesso che veda in lei una rivale, una che si vuole accaparrare qualcosa che invece spetta a lui e perciò le fa delle rumorosissime ringhiate come a tenerla a bada. Certe volte quelle ringhiate le fa anche a me quando mi chino su di lui ad accarezzarlo. Digrigna i denti per poi, al contatto della mia mano che lo accarezza, uscirsene in un gemito di beatitudine.

Sono storie di cani. E’ il titolo di uno dei romanzi più belli che avevo letto nei miei vent’anni, il Niki. Storia di un cane dello scrittore ungherese Tibor Déry (Einaudi, 1958), uno che aveva patito con anni di cella la rappresaglia russa del 1956, e che quel che accadde allora in Ungheria lo raccontò attraverso gli occhi di un cane che vede arrivare a casa degli sconosciuti i quali acciuffano il suo padrone e lo portano via. Come se Clint vedesse arrivare degli sconosciuti che acciuffano Michela e se la portano via, e lui non lo sa proprio né dove la stanno portando né perché. Straziante.

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